Doveva essere una transizione pacifica: si è trasformata in una resa militare e simbolica. Con la fuga dei vertici e la gente abbandonata in città (foto di Alessio Romenzi)

Kabul, addio. Se c'è un'immagine simbolica della fine dei venti anni di presenza americana in Afghanistan e del trionfo dei talebani è quella del ponte aereo che dall'ambasciata americana è andato avanti per tutta la notte tra il 14 e il 15 agosto e per tutta la mattina successiva verso all'aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Centinaia di americani sono stati evacuati, mentre i talebani si avvicinavano alla città, liberando i detenuti della più  grande prigione del Paese a quindici chilometri dalla capitale.

 

Dal tetto dell'ambasciata italiana, al sesto piano, due immagini raccontano questo momento: gli elicotteri statunitensi e una coltre di fumo che ininterrotta dalle ambasciate e dagli uffici consolari. Prima di andare, tutti, hanno bruciato i documenti. La testimonianza di questi venti anni di libertà duratura che si dissolve, al caldo della metà di agosto, con la fuga del presidente della Repubblica, Ashraf Ghani , e la presa della capitale da parte dei talebani.

 

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Tutto è avvenuto con una velocità che nessuno si aspettava: le forze di polizia nelle prime ore di Ieri mattina smentivano in maniera categorica i combattimenti in città della notte precedente e la presa della prigione. Un'ora dopo i telefoni erano tutti spenti. I talebani erano in città e gli abitanti di Kabul si erano riversati in strada, e a migliaia in aeroporto, rimasta ormai l'unica via d'uscita dal Paese.

 

L'incertezza e la preoccupazione delle ultime settimane hanno velocemente lasciato il posto ad una rabbia incontrollata. Assalti alle banche, assalti ai negozi, assalti ai convogli delle ambasciate che stavano preparando l'evacuazione. L'ambasciata italiana dista una manciata di chilometri dallo scalo della capitale.

 

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Il piano, ieri mattina, era di raggiungere l'aeroporto via terra, caricando persone, attrezzature e documenti. Ma quando un convoglio blindato ha provato a uscire le condizioni non lo permettevano più. È mezzogiorno quando dalle comunicazioni via radio una voce dice: "si mette male". L'ambasciata decide per il ponte aereo verso l'aeroporto. Fuori, ai mezzi blindati si lanciano sassi, è la rabbia di chi si sente lasciato indietro, abbandonato, rimasto a guardare, impotente, il cielo di Kabul. La staffetta delle delegazioni diplomatiche a cui per tutto il giorno viene garantito un passaggio sicuro verso l'aeroporto mentre i voli civili sono bloccati.

 

Gli afgani si accumulano a migliaia fuori e dentro lo scalo, mentre le ore passano e a poche centinaia di metri si comincia a sparare. La gente vuole fuggire, è piena di rabbia.  Il presidente Ashraf Ghani, che aveva chiesto una transizione dignitosa, senza dire una parola al Paese, scompare: a tarda serata la sua presenza sarà confermata in Tajikistan. È saltata la catena di comando a Kabul, e nessuno sa più chi garantisce la sicurezza in città. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid dice he gli uffici della polizia distrettuale sono evacuati, e i ministeri si sono svuotati, che il personale è fuggito. Non è una transizione quella che vive Kabul, è una resa.

 

Militare e simbolica insieme.

 

La vittoria è sancita anche simbolicamente, con l'entrata dei talebani nell'università di Kabul. A poco servono le rassicurazioni quando una delle prime immagini dei talebani in città li ritrae nel spiazzale dell'università. È il simbolo dell'istruzione, delle ragazze tornate a studiare, dell'attivismo, della diffusione della conoscenza. L'università è evacuata, gli insegnanti salutano le studentesse senza sapere se e quando le rivedranno in aula. Parte anche l'ambasciatore americano, i talebani sono ormai al Palazzo Presidenziale e si vantano che neanche una goccia di sangue è stata versata. In diretta tv proclamano la nascita dell'Emirato islamico, uno dei loro leader invoca la pace: "Garantire la sicurezza sarà una grande responsabilità, questo Paese non è più quello di venti anni fa". Una frase che suona come un avvertimento a una generazione educata alla libertà.

 

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Intanto intorno all'aeroporto si spara ancora. Suonano due volte gli allarmi sicurezza. Tutti dentro, accucciati: fuori le raffiche di mitra. Le operazioni sono lentissime. Dal lato opposto dell'aeroporto centinaia di afgani premono e urlano: chiedono di essere portati via. Uomini, donne, bambini. Urlano "traditori" a quelli che partono e "traditore" a Ghani che è fuggito.

 

La tensione è alta anche quando il volo italiano finalmente si prepara sulla pista: con i 60 italiani anche famiglie afgane. Famiglie da tutelare dall'oscurità che è calata su Kabul. Sono le due di notte quando ci si imbarca velocemente: sulla pista ci sono ancora i segni dell'assalto di qualche ora prima, scarpe rimaste a terra, abbandonate da chi è fuggito. I militari italiani che restano salutano gli afgani che sono riusciti a imbarcare: buona vita nuova, in Italia. È stato il loro sforzo a salvare queste persone. Ora resta da capire se riusciranno a salvare chi è rimasto indietro.