Intervista
Il fallimento dell’intelligence statunitense, i mancati rapporti con gli alleati sul territorio. E l’influenza della Cina su quell’area e su altri possibili scenari. Parla Ian Bremmer, fondatore e presidente della società di consulenza geopolitica Eurasia Group
di Federica Bianchi
Ian Bremmer, fondatore e presidente della società di consulenza geopolitica Eurasia Group e della start up media Gzeroworld, osserva con incredulità la terribile esecuzione del ritiro americano dall'Afghanistan. Un ritiro che lui ha sempre peraltro ritenuto inevitabile.
«Tutto è andato male. È stato un ritiro catastrofico. Pensavano che i talebani ci avrebbero messo due o tre mesi per conquistare il Paese e ci hanno impiegato due o tre giorni. Un fallimento incredibile dell'intelligence americana. Inoltre gli Usa hanno fatto tutto da soli, senza chiedere nulla agli alleati ed è stato un vero disastro di pianificazione. Non si sono preparati per lo scenario peggiore, che poi si è avverato. A causa di questa mancanza molta gente ha perso e perderà la vita. Sul piano comunicativo è andata ancora peggio, con Biden che aveva escluso una simile eventualità solo un mese fa e ha fatto la figura di uno che non sa quello che sta facendo».
E l'Europa in tutto ciò?
«Gli europei sono molto delusi dal fatto di non essere stati coinvolti dopo 20 anni di lavoro insieme, dopo avere perso vite. L'ambasciatore americano è fuggito nel fine settimana mentre quello inglese è ancora lì a stampare visti. Perché non ci siamo coordinati con i nostri alleati? Perché non abbiamo gestito insieme l'emergenza umanitaria? Ora gli europei si ritrovano da soli a gestire di corsa la questione dei rifugiati senza avere un piano concordato insieme agli americani».
Questa ritirata frettolosa è l'inizio di un disimpegno americano in Paesi che fino ad oggi hanno contato sulla protezione degli Usa?
«L'Afghanistan è una catastrofe enorme ma la situazione è simile a quella dell'Ucraina e della Georgia, Paesi che gli Stati Uniti non considerano priorità strategiche. Certo molti soldi, molti sforzi e molte vite sono state investite in Afghanistan ma adesso, vent'anni dopo, le priorità americane sono cambiate. E l'Afghanistan non ne fa più parte. Stessa cosa vale per l'Ucraina, per la quale infatti gli Usa non hanno mosso un dito durante l'invasione russa. Gli Stati Uniti non investono dove non hanno obiettivi strategici».
Il direttore di Global Times, il giornale portavoce del governo cinese, ha scritto e diffuso sui social che anche i taiwanesi si devono preparare alla resa visto che gli americani non correranno in loro soccorso quando Pechino deciderà di riprendersi quella che considerano la loro “provincia ribelle”. È questo il caso?
«Taiwan è una priorità diplomatica strategica verso la quale gli Stati Uniti hanno un impegno profondo anche sul piano militare e tecnologico. E il governo cinese lo sa. Adesso sfrutta la propaganda anti-americana, in un momento di grande debolezza di immagine di Washington, di enorme imbarazzo, per mettere pressione sul governo e sui cittadini di Taiwan, per persuaderli che gli americani non saranno al loro fianco quando Pechino deciderà di riprendersi la “provincia ribelle”, che prima o poi dovranno arrendersi alla Cina. Ma Pechino sa bene che non è così. Lo stesso vale per i Paesi dei Balcani, che per la Russia sono no-limit. Anche in quel caso Washington interverrebbe».
Vuol dire che l'attenzione americana adesso sarà davvero spostata verso l'Asia, come aveva cominciato a fare il presidente Obama?
«Certo, ci sarà molta più attenzione all'Asia. Il ritiro dall'Afghanistan fa parte della nuova strategia americana che considera la Cina come il primo pericolo alla sua sicurezza nazionale. Purtroppo il ritiro dall'Afghanistan è stato un disastro ma questo non cambia il fatto che gli Usa sono ancora la prima potenza mondiale, con le principali aziende tecnologiche del mondo e con la principale valuta mondiale».
L'Afghanistan rimarrà in mano cinese?
«La Cina sarà la principale potenza in Afghanistan, Paese su cui ha mire il Pakistan, tradizionale alleato cinese, che, a differenza di 20 anni fa, ora conta più sulla Cina che sugli Usa per ogni assistenza. Pechino non può permettersi uno stato fallito al confine con la regione dello Xinjiang (dove vivono gli uiguri, la minoranza perseguitata da Pechino). E dunque è disposta a finanziare il governo talebano, eventualmente anche contro il volere della popolazione. Ma non sarà facile tenere il Paese insieme. La verità che Pechino non può dire è che non avrebbe mai voluto che gli americani se ne andassero. È contro i loro interessi strategici».