Intervista
«Paghiamo oggi l’errore dell’Iraq»
“La risposta agli attentati del’11 settembre fu legittima, ma lo sbaglio strategico è stato coinvolgere Saddam”. Secondo lo storico di Yale Ben Kiernan questo ha innescato la propagazione di al-Quaeda e Isis
«La prima cosa che mi viene da dire è questa: gli attacchi dell’11 settembre 2001 sono stati un crimine contro l’umanità». Ben Kiernan, storico di origini australiane e americano d’adozione, è il direttore del Genocide studies program dell’Università di Yale (il suo libro Blood and Soil: A World History of Genocide and Extermination from Sparta to Darfur è stato premiato come miglior libro di storia nel 2008) e in questa intervista esclusiva con L’Espresso parla di come gli Stati Uniti (e non solo) siano cambiati dopo (e a causa) degli attacchi alle Twin Towers.
Cosa significa oggi quella data?
«Come prima cosa occorre pensare a come siamo arrivati all’America di oggi partendo dall’11 settembre 2001. Molte cose sono dipese da quella che è stata la risposta degli Stati Uniti a quel crimine contro l’umanità, all’aggressione contro due città americane avvenute dall’esterno degli Stati Uniti, aggressione che ha ucciso circa tremila americani. Gli Usa avevano ovviamente il diritto di rispondere a quegli attacchi per autodifesa, sfortunatamente la risposta è stata difettosa, iper aggressiva e, in larga misura, ha fallito».
Pensa all’Afghanistan?
«Partiamo da lì. Gli Stati Uniti avevano tutto il diritto di perseguire e rintracciare i responsabili di quegli attacchi, Osama bin Laden e Al-Qaeda, e anche di perseguire e rovesciare il governo dell’Afghanistan, i talebani, che ospitava Osama bin Laden e Al-Qaeda e si rifiutava di consegnarli. Avevano il diritto di intervenire in Afghanistan e credo che fosse necessario rovesciare il governo dei talebani, che era particolarmente repressivo, se non genocida, contro la minoranza musulmana sciita. Un governo che ha anche distrutto l’inestimabile patrimonio dei Buddha di Bamiyan, da condannare sotto molti aspetti».
Qual è l’errore allora?
«La risposta degli Usa è stata iper-aggressiva, hanno creato un caso per invadere anche l’Iraq, sostenendo falsamente che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa, un’invasione su larga scala che non era sostenuta dalle Nazioni Unite ed era, secondo le leggi internazionali, illegale. Così la giustificabile invasione dell’Afghanistan si è trasformata in un attacco ad un altro paese musulmano. Con un occhio al vero nemico, l’Iran, terzo paese musulmano, in un confuso tentativo di coinvolgerlo. Prendendo di mira un regime laico come quello di Saddam, l’intervento Usa ha finito per creare una reazione musulmana in Iraq. Prima con Al- Qaeda, poi con la trasformazione, durante l’invasione-occupazione, nel movimento che è diventato lo Stato Islamico, che poi si è diffuso in Siria e oggi è presente anche in Africa. Ed è molto più di una minaccia terroristica per il mondo».
Perché?
«Perché si è diffuso anche in Europa. E un numero enorme di rifugiati ha lasciato la Siria, ha influenzato la Turchia. La risposta sbagliata, vista oggi si potrebbe dire anche fallimentare, all’11 settembre ha alterato il mondo e in quell’area lo ha peggiorato. Ora, 20 anni dopo, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan senza aver sconfitto i talebani che riprendono il potere. Ha fallito anche in Iraq, dove abbiamo un regime al potere che è ancora vicino all’Iran, cosa che non era l’obiettivo dell’amministrazione Bush-Cheney. E oggi abbiamo una minaccia terroristica dilagante in luoghi come la Siria e l’Africa».
È fallita l’esportazione della democrazia?
«Il tentativo era quello di imporre la democrazia con la forza, imporla in Iraq nella speranza che si diffondesse. E in effetti la primavera araba si è poi verificata in molti paesi, ma adesso vediamo che anche l’ultimo paese dove aveva avuto successo, la Tunisia, sta fallendo».
In venti anni che effetti ci sono stati?
«Negli Stati Uniti è cambiato molto. Dopo l’invasione dell’Iraq, l’invio di maggiori truppe, la continua presenza di truppe in Afghanistan, la stanchezza per le avventure militari all’estero, hanno certamente aiutato Trump ad arrivare al potere. La Casa Bianca di Trump ha trascurato le alleanze, ha minato quelle con l’Europa, è stata una politica disastrosa per l’America. Pensi solo al fatto che, è stato rivelato di recente, che in un viaggio in Europa per il centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale nel 2018, Trump ha detto a uno dei suoi collaboratori che Hitler ha fatto un sacco di cose buone. Lo hanno convinto a non dire niente del genere in Europa, ma il solo fatto che ci abbia creduto e abbia pensato di poter dire qualcosa del genere è scioccante».
L’11 settembre ha veramente cambiato tutto, come si disse allora?
«Ha cambiato molto. Molte cose sono migliorate, altre sono peggiorate. Penso che quello che abbiamo visto il 6 gennaio nella rivolta in cui un gran numero di insorti ha tentato di prendere il controllo del Congresso a Washington e interrompere, o addirittura fermare i lavori dei rappresentanti del Congresso democraticamente eletti, cosa che non era mai successa prima negli Stati Uniti, sia un segno del deterioramento della democrazia. Soprattutto se si considera che uno dei partiti politici in America non è favorevole a indagare su ciò che è successo quel giorno. Non voglio paragonare gli eventi del 6 gennaio 2021 con quelli dell’11 settembre 2001, ma guardate al contrasto tra le attività dei rivoltosi del 6 gennaio con i coraggiosi americani del volo 93 dell’11 settembre 2001, che presero in mano l’aereo dopo che venne dirottato dai terroristi di Al-Qaeda».
L’elezione di Biden rappresenta una svolta?
«È un buon inizio. È il tentativo di fornire un migliore standard di vita alle famiglie con bambini. È il tentativo di ridurre il livello di povertà in America. Biden, naturalmente, ha un problema politico nel fatto che il partito repubblicano ha come scopo abbattere l’attuale amministrazione e impedirle di avere qualche successo. Al Senato, Biden può contare al massimo su un piccolo numero di senatori repubblicani, e non su tutti i senatori democratici, disposti a sostenerlo. Molto dipenderà dalle elezioni dell’anno prossimo. Biden è consapevole della necessità di risolvere il problema del tenore di vita, di lottare contro la pandemia per far vaccinare la gente e prevenire un’altra ondata con la variante Delta, ma sono problemi molto difficili da risolvere in un sistema politico americano che è molto antiquato».
Teme derive di autoritarismo come accaduto con Trump?
«No, però non è un sistema pienamente democratico. Ai piccoli Stati viene dato un potere sproporzionato nel Senato degli Stati Uniti. I cittadini di Washington, la capitale, non hanno una rappresentanza al Senato. Essendo cresciuto in Australia, posso affermare che lo squilibrio tra elettori rurali e urbani, e il peso che veniva dato in Australia agli elettori rurali rispetto a quelli urbani, è stato ampiamente risolto negli anni Settanta. Ma questo persiste ancora negli Stati Uniti quasi 50 anni dopo».
Il terrorismo oggi è ancora una minaccia per gli Stati Uniti?
«È difficile dirlo. Penso che le cause a lungo termine del terrorismo possano essere ancora intatte, ma il potere delle organizzazioni terroristiche sia ridotto rispetto a 10 anni fa. Penso che il fallimento della primavera araba sia un problema nei paesi musulmani. Però in Indonesia, il più grande paese musulmano, ci sono stati grandi passi avanti nella democrazia dalla caduta del regime di Suharto nel 1998. Nonostante un aumento del terrorismo c’è stato anche un aumento della democrazia su scala globale».
In vent’anni il mondo è diventato complessivamente migliore o peggiore?
«Penso che ci siano stati sviluppi positivi. Non necessariamente maggiori dopo l’11 settembre, ma dagli anni Novanta e dalla fine della guerra fredda, ci sono stati sviluppi positivi e attenzione sulla scena internazionale, ad esempio per prevenire e punire il genocidio: i tribunali istituiti dalle Nazioni Unite per il Ruanda e per la Bosnia, il tribunale misto delle Nazioni Unite con il governo cambogiano, che ha dichiarato i Khmer Rossi colpevoli di due casi di genocidio nel 2018. Purtroppo ci sono ancora focolai di genocidio, anche in Birmania, dove la minoranza musulmana, il popolo Rohingya, che è stato preso di mira su scala crescente dal 1978, con una persecuzione che ha raggiunto il livello di genocidio decenni dopo nel 2016, 2017, 2018. C’è la persecuzione del popolo uiguro in Cina, c’è la proliferazione di gruppi terroristici islamisti in Africa, in posti come la Nigeria, Boko Haram e altri. Gruppi terroristici che sono genocidi, almeno nell’ideologia, che massacrano popolazioni o un gran numero di civili in nome dell’ideologia islamista, che sono più diffusi di quanto non fossero 20 anni. E poi ci sono le cause a lungo termine per i genocidi».
Quali?
«Il cambiamento climatico, la povertà, la guerra, le malattie, l’instabilità politica. Poi ci sono i fattori a breve termine, che sono le decisioni politiche prese da gruppi genocidi che arrivano al potere grazie ai fattori a lungo termine e che poi possono attuare le loro politiche genocide».