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Così la guerra interna all’intelligence Usa ha favorito l’11 settembre

di Leo Sisti   3 settembre 2021

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La fuga dall’Afghanistan è l’ultimo di una serie di fallimenti, iniziati nel 2001. Quando Al Qaeda non fu fermata e le previsioni sbagliate della Cia e la gelosia tra agenzie regalarono un vantaggio a Bin Laden

A mezzanotte di lunedì 30 agosto va in scena l’ultimo atto della guerra nel pantano afghano. Stordisce il bilancio di questi vent’anni di guerra. Per il suo costo finanziario, oltre 2.260 miliardi di dollari. Per il triste pedaggio pagato da vittime incolpevoli, cadute sul campo del gioco bellico: 241 mila, di cui 2.442 soldati degli Stati Uniti. Per la catena di errori commessi, oggi, come allora, nel 2001, quando tutto è iniziato, dopo la strage dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York.


La débacle in Afghanistan, con la sua evacuazione apocalittica, la fotografa il rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction.


Un cahier de doléances impietoso, pubblicato dopo la presa di Kabul di metà agosto, dal titolo significativo: “Quali lezioni trarre dopo vent’anni di guerra in Afghanistan”.


«Il governo americano non ha capito il contesto afghano... aver ignorato le prevalenti istanze, sociali, culturali e politiche ha portato al fallimento sul terreno». L’immagine che esce da questo quadro? «Desolante».


Questo è il secondo fallimento. Il primo conduce ancora più lontano, ma non è l’incomprensione il suo stigma. È la rivalità, la gelosia all’interno di due agenzie nella gestione di informazioni vitali che avrebbero dovuto essere condivise e sono state invece trattenute. Informazioni che avrebbero potuto impedire l’attentato di New York con i suoi 3000 morti. Qualcuno si sarebbe salvato? Forse sì. Ma qualcosa è andato storto. Lo sa bene chi si è battuto per superare questo stallo. È Mark Rossini, 60 anni, ex agente dell’Fbi, distaccato nel 1999 dal bureau presso la Alec station, l’unità speciale creata dalla Cia nel 1999 per dare la caccia ad Al Qaeda e a Osama Bin Laden. Afghanistan e quella data simbolo, 11 settembre, sono intrecciati nei ricordi di chi, da protagonista, ha vissuto anni di lavoro intenso: segnalando buchi nelle indagini e denunciando chi gli ha fatto terra bruciata, per non permettergli di procedere su una pista che avrebbe potuto risparmiare vite spezzate.

 

Mark Rossini


Rossini, una laurea in Scienze politiche, oggi titolare di una società di consulenze, se lo rammenta bene quel giorno maledetto, un martedì. «Ero in macchina, radio spenta, senza musica né notizie. Stavo solo attento al traffico. Squilla il telefono, mi chiama un broker di Merrill Lynch, lavorava a due passi dalle Torri Gemelle. Mi dice: “Un aereo ha colpito il World Trade Center”. Che cosa? Sarà stato un Cessna, il pilota avrà avuto un infarto. Mi risponde urlando: “No, era un jumbo jet!”. Stavolta sono io a urlare: vai via subito dall’edificio, esci a tutta velocità. Scappando, vedrà corpi per terra, gente che cade, che si butta dal grattacielo. Sono arrivato di corsa al mio ufficio alla Cia, appena in tempo per vedere in tv un altro aereo entrare nella seconda torre. Scatta un allarme: un altro apparecchio si stava dirigendo verso Washington, riceviamo l’ordine di evacuare il palazzo. Ma noi della Alec station, proprio noi che dovevamo combattere Al Qaeda, non potevamo fuggire. Siamo rimasti al nostro posto. E non ci siamo mossi. Abbiamo cercato di capire chi ci fosse su quei velivoli, i loro nomi».

 

E il fantasma della memoria riaffiora di colpo, andando indietro nel tempo, mettendo insieme le tessere di un puzzle da ricomporre, in una sorta di rewind, di riavvolgimento ossessivo del nastro. Testimone di questo stato d’animo, la sera stessa, la moglie di Mark, che ricorderà: «Prima di andare a letto, continuavi a dire: “Sapevamo chi erano, sapevamo chi erano”. Poi ti sei addormentato».


Un nome su tutti ricorre. Quello del saudita Khalid al-Midhar, già nel mirino della Cia da tempo, uno dei futuri attentatori del volo American Airlines 77, poi schiantato sul Pentagono. Rossini e un suo altro collega dell’Fbi, l’agente speciale Doug Miller, anche lui assegnato alla Alec Station, scoprono che proprio questo personaggio aveva nel suo passaporto un visto per gli Stati Uniti. Al-Midhar aveva anche preso parte, ai primi di gennaio 2000, al famoso summit di Al Qaeda a Kuala Lumpur, in Malesia, la prova generale in vista dell’attacco dell’11 settembre. Poco dopo, il 5 gennaio, Miller scrive un messaggio ai capi dell’Fbi informandoli della novità. Avrebbe potuto essere una svolta clamorosa. Nuove piste. Nuove inchieste. Invece Doug viene bloccato. Il suo messaggio non arriverà mai a destinazione. Una giovane analista della Cia, Michael Anne Casey, gli impone di non avvertire l’Fbi, lo ha deciso il vicedirettore, Tom Wilshire. Sono le regole interne della Alec Station: è vietato riferire notizie al di fuori di quel ristretto gruppo.


Miller è annichilito. Rossini anche. Miss Casey giustificherà così il suo comportamento: «Questo caso non riguarda l’Fbi. Il prossimo attacco di Al Qaeda avverrà nel sud-est asiatico e i loro visti (quelli degli attentatori, ndr) per l’America sono solo un diversivo. Non devi fare parola con l’Fbi su questo. Se, e quando, vorremo che l’Fbi sia messo al corrente, lo faremo». Rossini si chiede spesso che cosa sarebbe successo se lui non avesse dato retta a quest’ordine: un tarlo che non lo abbandonerà mai. Sarebbe stato possibile intervenire e magari riuscire a salvare delle vite? Non si saprà mai.

 

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Quello che avviene dopo è ancora peggio. Lo spiega lo stesso Mark: «Sono in grado di fornire prove, dettagli, perché quel memorandum di Doug è stato soppresso. La Cia era impegnata in un’operazione di reclutamento, all’interno degli Usa, insieme ai servizi segreti arabi del Mabahit. Avrebbero dovuto avvicinare alcuni dei terroristi che avevano partecipato al vertice di Al Qaeda a Kuala Lumpur», e convincerli a collaborare. Ma c’è di più. I capi della Alec station non volevano che l’agente speciale dell’Fbi, John O’Neill, a New York, «interferisse con il reclutamento». Sarebbe infatti emerso che gli uomini del Mabahit avrebbero dovuto svolgere delle «attività negli Stati Uniti, con il consenso della Cia. Ma che la Cia non aveva l’autorità di dare». Insomma, attività clandestine. E una simile iniziativa avrebbe richiesto la supervisione dell’Fbi e l’approvazione del dipartimento di Giustizia. Troppo complicato.


E poi c’è un altro aspetto, delicatissimo. Secondo Rossini, la Cia «temeva che O’Neill non potesse essere controllato e dissuaso dal procedere ad arresti». Con due gravi conseguenze: il reclutamento sarebbe saltato e i sauditi si sarebbero arrabbiati. Quando mai, in quel periodo, Washington, che aveva sempre avuto relazioni eccellenti con Riyad, avrebbe potuto sopportare un simile incidente diplomatico?

 

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Ormai è chiaro. Il reclutamento è finito miseramente. Eppure, la Cia insiste. Nel giugno 2001 suoi agenti si presentano nella sede del bureau a New York, ma senza invitare Rossini. Sembra sia stata una scena surreale. Gli uomini della Alec station mostrano ai colleghi del bureau foto di alcuni dei terroristi presenti alla riunione di Kuala Lumpur, senza però dirglielo. Domande come: «Chi sono questi? Dove sono state scattate queste fotografie? E perché?», sono scivolate via senza risposta. Ne è stata data una sola: «Non ve lo possiamo riferire». Tra l’altro, una delle foto raffigurava proprio Khalid al-Midhar.


Il mistero sulla scomparsa del memo di Doug Miller è sempre lì, sospeso. Mark Rossini è stato sentito in una sessione del Joint congressional inquiry, quindi del Congresso: «Non potevo parlare. Ho tenuto la bocca chiusa. Mi hanno messo in una stanza, senza avvocato, quindi senza protezione. Un agente della Cia scriveva note. Ho detto soltanto: “Non ricordo”». Una brutta situazione: non poteva fare nomi, gli era stato proibito dalla Cia. Forse è per questo che la speciale Commissione d’inchiesta sull’11 settembre non l’ha mai interrogato.


Un altro dei misteri che aleggiano in questa atmosfera di cospirazione riguarda il contenuto di 28 pagine di un rapporto esplosivo, intitolato “The Saudi presence in the Usa”. Secondo Mark Rossini, il dossier, classificato, cioè censurato, mette in rilievo le connessioni tra alti dignitari sauditi, appartenenti alla famiglia reale, e i 19 dirottatori. Si tratta di persone che l’Fbi non è mai riuscita a interrogare. Anche perché, proprio subito dopo gli attacchi, quando gli aeroporti erano chiusi, un aereo è atterrato negli Stati Uniti e li ha riportati tutti a casa, in Arabia: «La principessa Haifa bin Faisal, moglie del principe Bandar, allora ambasciatore a Washington, aveva staccato assegni per 130.000 dollari girati a una charity che finanziava Omar al-Bayoumi, un agente saudita, in contatto con due terroristi, da lui aiutati a trovare un appartamento a San Diego, in California». Uno era proprio Khalid al-Midhar e l’altro Nawaf al-Hamzi, anche lui sul volo suicida American Airlines 77.


In passato, la Commissione sull’11 settembre aveva concluso: «Non ci sono prove che il governo saudita, come istituzione, o funzionari sauditi, individualmente, abbiano finanziato» Al Qaeda. Per due decenni 1.600 parenti di vittime hanno premuto su quattro presidenti, insistendo che quel materiale diventasse di pubblico dominio. Nel 2016 Barack Obama lo ha parzialmente declassificato. Ma nel 2019 William Barr, ministro della Giustizia nell’amministrazione Trump, è stato risoluto: quei documenti devono essere coperti da segreto, è una questione di sicurezza nazionale. Uno schiaffo per le famiglie che hanno portato in tribunale il Regno saudita con richieste di risarcimento. E che, infuriate per il silenzio della politica, il 9 agosto scorso hanno rivolto un appello al presidente Joe Biden: il prossimo 11 settembre si asterranno dal presenziare alla commemorazione per il ventennale dell’ecatombe se non avranno assicurazioni sulla liberazione totale della censura. Biden avrebbe fatto qualche promessa. Chissà se la manterrà. Anche Rossini lo spera: «Se, e quando, quelle famose 28 pagine saranno tutte desecretate, e rese pubbliche, si potrà capire perché la Alec station ha fermato Doug Miller e perché mi è stato chiesto di stare zitto».


Se così fosse, potrebbe anche lui rivolgersi a un magistrato che affronti una causa civile o penale. Per far luce su un mistero che lo accompagna da una vita.