Il costo esponenziale delle guerre dopo l’attacco, il razzismo e ora il rischio del terrorismo di destra. Parla Melani McAlister, saggista, accademica e scrittrice americana

«Ero a Washington, all’inizio era molto difficile da credere, lo guardammo come tutti gli altri in televisione. Ma il giorno dopo fu piuttosto impressionante vedere i carri armati per le strade della capitale degli Stati Uniti, non è certo qualcosa che si veda molto spesso. Ho avuto decisamente la sensazione di un mondo che era stato messo sottosopra, non avevamo davvero idea di cosa sarebbe successo o cosa aspettarci. L’11 settembre la paura era reale».


Melani McAlister, saggista, accademica e scrittrice è specializzata nelle diverse ”visioni globali” prodotte da e per gli americani. I suoi scritti e il suo insegnamento (ha la cattedra di American Studies and International Affairs alla George Washington University) hanno al centro i rapporti tra storia culturale e politica e il ruolo della religione e della cultura popolare nel plasmare gli “interessi” degli Stati Uniti in altre parti del mondo.

 

Ha un ricordo particolare di quel giorno?

«Anche allora insegnavo alla George Washington University, c’erano molti studenti e c’è un ospedale. Appena hanno saputo cosa era successo in centinaia hanno iniziato a mettersi in fila per donare il sangue, immaginando che ci sarebbero stati molti feriti. Questo è quanto accadeva anche a New York. In realtà non c’erano molti feriti, o si sopravviveva o non si sopravviveva. Ma la sensazione che quei ragazzi cercassero così tanto per trovare qualcosa da fare in quel momento è qualcosa che rimarrà sempre con me».

 

La situazione politica di oggi è in qualche modo una conseguenza di quell’attacco?

«Certamente. Molte cose oggi sono state plasmate da quell’attentato. Ne citerò un paio. La prima è che dobbiamo pensare, da un punto di vista degli Stati Uniti, all’enorme costo dei 20 anni di guerra: costo in termini di morti militari, 7mila soldati americani, più altri 8mila tra contractor e civili; costo economico, qualcosa come 6,4 trilioni di dollari spesi finora con altri 6,5 trilioni di dollari probabilmente in scadenza, solo di interessi sul debito che abbiamo contratto finora per le guerre».

 

E il costo globale?

«Naturalmente è molto più alto. Il Cost of War Project stima che ci sono stati circa 335mila civili uccisi in varie guerre dopo l’11 settembre, quindi Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, Yemen, un’intera gamma di guerre, ma in particolare ovviamente in Iraq e Afghanistan. E poi ci sono 37 milioni di persone sfollate. Quindi, stiamo parlando di un mondo profondamente plasmato sia negli Stati Uniti che all’estero. Non riesco a pensare a quanto diverse sarebbero state le nostre vite se l’11 settembre non fosse successo, ma anche se la reazione degli Stati Uniti fosse stata diversa da quella che è stata e se avessimo avuto un presidente diverso o un diverso insieme di scelte fatte».

 

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Anche Trump è una conseguenza?

«L’intero fenomeno di Trump e il populismo negli Stati Uniti hanno una forma particolare, diversa dall’Europa. Il Make America Great Again non può essere compreso separatamente dalle conseguenze dell’11 settembre. Essere stati in guerre molto lunghe e devastanti dal punto di vista economico, ma allo stesso tempo molto lontane. Molti dei sostenitori incalliti di Trump sono spesso le persone più vicine al mondo che compone l’esercito americano».

 

Per quali motivi?

«L’esercito degli Stati Uniti è molto vario dal punto di vista razziale, ma non molto vario dal punto di vista regionale. Si concentra nel sud e nel sud-ovest, da lì arrivano in maggioranza le persone che si offrono volontarie per entrare nell’esercito. L’Afghanistan è stata una guerra senza successo, una guerra impopolare, penso che sia sicuramente collegata, insieme al costo economico, all’aumento della retorica populista più arrabbiata».

 

Allora negli Usa quasi tutti dicevano che era una guerra giusta, era così?

«Possiamo dire che ci sono stati alcuni successi nello smantellamento di Al Qaeda nel corso del tempo e nella lotta contro l’Isis in termini di aiuto effettivo per interrompere le principali reti terroristiche. Anche se, naturalmente, sono riapparsi in Africa. Ma penso che quando guardiamo a quello che è successo all’Afghanistan negli ultimi 20 anni, la quantità di denaro che è stato speso e sprecato, il fatto che quando ce ne andremo i talebani torneranno subito al potere, non credo che ci sia modo di considerare questo qualcosa di diverso da un disastro. Ci saranno alcune cose che forse sono cambiate in meglio, nel senso che forse le donne manterranno qualche diritto e posizione in più, potranno andare a scuola, non proprio il tipo di restrizioni severe che affrontavano prima sotto i talebani. Ma dato il costo, dato il numero di morti, dato il fatto che, in realtà, molto poco è cambiato non credo che ci sia modo di vedere questo come un successo».

 

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È fallita l’idea di esportare la democrazia?

«La democrazia non è come un piatto con cui ti presenti a casa di qualcuno e glielo dai. Io sostengo gli sforzi di democratizzazione che sono non violenti, che riguardano il lavoro con tutti i tipi di persone, sulle diverse forme di democrazia che potrebbero funzionare nella loro situazione. Certamente la democrazia non deve essere solo una cosa, ma l’idea che si possa democratizzare un Paese invece di lavorare con la gente, a volte è un processo lungo, lento e frustrante per cercare di muoversi verso strutture più democratiche che includano il maggior numero di persone possibile. Non chiamiamola democratizzazione, chiamiamola per quello che era, cioè un cambio di regime, perché ci sono molti Paesi antidemocratici nel mondo, e gli Stati Uniti, grazie al cielo, non sono andati in giro a cercare di cambiarli tutti».

 

La bilancia tra sicurezza e libertà?

«È cambiata, molto. C’è l’accettazione di una sorveglianza maggiore, che non riguarda solo l’11 settembre ma anche Google e la tecnologia. La gente è sempre più disposta a permettere la sorveglianza delle telefonate, la sicurezza di internet, la mancanza di privacy si espande. C’è un aumento dei poteri della polizia e la militarizzazione di questi poteri, ora stanno ricevendo attrezzature militari usate dall’esercito americano e il loro addestramento è sempre più simile a quello di un soldato. Gli americani sembrano essere disposti ad accettare una sorta di militarizzazione della loro stessa società, che non ha nulla a che fare con l’11 settembre, ma in qualche modo ne è una conseguenza».

 

Il terrorismo 20 anni dopo è ancora una minaccia reale per gli Stati Uniti?

«Uno dei successi dell’apparato di sicurezza nazionale dopo l’11 settembre è stato l’aumento della capacità di monitorare e intercettare e prevenire le varie forme di attacco terroristico che le persone hanno tentato. Ci saranno altri attacchi? Ci possono essere ma non credo della portata dell’11 settembre, sarei molto sorpresa. Basta che qualcuno si presenti in una stazione ferroviaria con una mitragliatrice e si possono fare molti danni, quindi penso che sarebbe sciocco dire che non esiste alcuna minaccia».

 

C’è un problema di terrorismo interno?

«Sì, c’è. Da molto tempo si è capito che il più grande rischio di terrorismo all’interno degli Stati Uniti è il terrorismo di destra. Quelle reti sono più organizzate, stanno facendo un sacco di piani, molti dei quali non si realizzano mai, ovviamente. E c’è una presenza molto più grande di persone che potrebbero essere interessate alla destra suprematista bianca. La destra radicale negli Stati Uniti non è piccola, può toccare, come nel caso del 6 gennaio, persone che in altre circostanze non avrebbero mai pianificato un attacco terroristico. Penso che ci si possa aspettare, visto il modo in cui gli Stati Uniti stanno diventando sempre più polarizzati, di vedere sempre più attacchi di questo tipo e come dice l’Fbi questi sono gli attacchi di cui dobbiamo preoccuparci».

 

Qual è l’atteggiamento verso i musulmani negli Stati Uniti?

«Ho scritto un libro sull’argomento, c’erano atteggiamenti piuttosto negativi già dopo la crisi degli ostaggi in Iran alla fine degli anni Settanta e più in generale l’incomprensione di una fede importante di cui la maggior parte degli americani non sapeva molto. La prima risposta che ho visto dopo l’11 settembre è stata negativa. Un drammatico aumento dell’islamofobia, ogni sorta di ostilità espressa. L’idea che questa fosse una cultura arretrata in tutti i 50 Paesi in cui viene praticata, le donne musulmane come tutte oppresse. Negli Stati Uniti siamo arrivati a legislazioni contro la Sharia, in piccole città in Tennessee, o in Kansas».

 

Oggi è diverso?

«Già allora abbiamo visto persone riconoscere immediatamente che questo sarebbe stato un problema e cercare di affrontare il sentimento anti-musulmano negli Stati Uniti. Una delle cose che mi ha commosso più profondamente nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre è accaduta in Virginia, che ha una grande popolazione musulmana. Le donne venivano importunate se indossavano l’hijab. E così un gruppo di chiese cristiane ha deciso di far indossare l’hijab a tutte le donne delle loro chiese per una settimana. Un modo per dire “siamo solidali con voi”. Hollywood ha fatto un lavoro orribile nel rappresentare le guerre e le conseguenze di queste guerre, ma è stato fatto anche altro. C’era ogni sorta di terroristi musulmani nelle trasmissioni tv, ma sono state bilanciate da quelle che hanno mostrato la molteplicità delle vite dei musulmani».

 

I giovani di oggi, nati dopo, cosa sanno dell’11 settembre?

«Stavo pensando di scrivere una rubrica su 20 anni di insegnamento, insegno un corso chiamato “Incontro culturale in Medio Oriente”. È pieno di studenti di diversi tipi, ci sono arabi, studenti musulmani, studenti ebrei e ragazzi bianchi del Kansas. Inizialmente avevano sempre ansia, perché non sanno nulla di quella regione, sono spaventati e confusi. Nel corso degli anni la classe è diventata sempre più grande, ho iniziato a insegnare a molti veterani di guerra dell’Iraq e dell’Afghanistan, ad altre persone che sono coinvolte nell’esercito. Gli studenti di oggi il terrorismo non lo sentono affatto come un problema importante. Vedono le guerre come una questione di impero americano e di potere americano, non come una questione di terrorismo».

 

Vent’anni dopo l’America è migliore?

«Penso che per molti versi è un posto più difficile in cui vivere. È più difficile a causa dell’aumento del razzismo, sia del razzismo anti-nero che dell’islamofobia come fatti quotidiani della vita, e a causa dell’ascesa di Trump e di tutta quell’ala della destra radicale negli Stati Uniti. E a causa delle cose che stanno colpendo tutti, come il cambiamento climatico, che portano molte persone a sentire la disperazione quotidiana, non importa quanto la propria vita sia o non sia personalmente facile. Ci sono però cose che mi fanno sperare e che secondo me migliorano la situazione. Una sono i giovani, molto più consapevoli e critici nei confronti del potere americano. Sono arrabbiati con le persone della mia generazione, sono davvero disposti ad andare a fondo su cose come il clima e il razzismo e a sfidare le nozioni di impero americano. Questo mi fa sentire speranzosa».