Salario minimo a 12 euro, la conquista del centro borghese, tradizione, innovazione. E un po’ di noia. Sono gli ingredienti con cui il leader dell’Spd punta alla cancelleria

Anno Domini 2021: eppure è bizzarro vedere tanto rosso nelle strade tedesche, e i più stupefatti forse sono proprio i militanti e i volontari della Spd. Grandi manifesti di un rosso quasi cardinalizio, a ogni grande incrocio di Berlino, ma anche nei quartieri più remoti, quasi sempre con il faccione di Olaf Scholz: «Rispetto per te» è uno degli slogan più gettonati, con il candidato cancelliere del partito che fu di Willy Brandt e di Helmut Schmidt che guarda il passante dritto negli occhi. Tutti annuiscono, quando nel quartiere di Wedding vicino a un banchetto dei socialdemocratici qualcuno fa risuonare a tutto volume “Respect” di Aretha Franklin.


Pochi giorni prima delle elezioni più strane della recente storia tedesca, quelle dell’infinito addio alla stagione merkeliana, tra i socialdemocratici c’era un’euforia che fino a poco tempo fa sembrava il reperto di un passato lontano: «Nessuno ci credeva, ma noi l’avevamo detto già mesi fa, quando stavamo al 15%, che ci sarebbe stata rimonta. Perché noi siamo solidi come la roccia», quasi gridava Christiane, militante trentenne con le dreadlocks, la quale «dopo aver flirtato con i Verdi» è tornata «in famiglia», ossia là dove votavano i suoi genitori e i nonni. Comunque vada a finire, questa è la storia di una Spd in versione araba fenice: inchiodata da anni al destino della crisi dei grandi partiti novecenteschi in generale e della sinistra in particolare, nel caso tedesco vampirizzata dalla post-ideologia avvolgente di Angela Merkel, sembra improvvisamente risorta all’ultimo miglio di una battaglia elettorale senza precedenti.

 

«Appare un miracolo politico che Scholz, all’inizio bollato come perdente, possa finire primo», ha scritto il direttore della Zeit Giovanni Di Lorenzo. Che parla, come tanti altri, di «una profonda mutazione del paesaggio dei partiti tedeschi» che sarebbe in atto in una Germania mai così mobile come adesso. Per certi versi un “back to the future”, sia pure in versione mignon rispetto a quando la Spd sfiorava il 40% dei voti, ma che comunque peserà in maniera sostanziale sulla formazione del primo governo dell’era post-merkeliana.


Non sorprende che i sondaggi in queste settimane siano stati uno dei passatempi preferiti dei tedeschi, che freneticamente compulsavano gli aggiornamenti e tutte le curve immaginabili che a ritmo vertiginoso si sono riversate sul mercato politico del Paese: una continua suspense degna di Hitchcock, con la Cdu/Csu che svettava oltre il 38% a inizio anno, ma poi precipita fino a un minimo del 19%, salvo recuperare qualche punto a urne ormai vicinissime, mentre i Verdi, anch’essi stupefatti, qualche mese fa erano primi per ritrovarsi terzi, quando i socialdemocratici riescono a piazzare il contro-boom, un sorpasso su cui nessuno aveva scommesso.

 

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E ora? Chiunque alla fine riesca a mettere in piedi una coalizione di governo, deve fare i conti con l’eredità di Angela Merkel e con la potenza della sua icona, che s’irradia in ogni angolo dell’immaginario tedesco: in onore ai suoi sedici anni di cancellierato un giocattolaio bavarese, la Hermann Spielwaren di Coburg, ha realizzato un orsacchiotto con le fattezze merkeliane, comprensive di caschetto, giacchetta rossa uguale a tutte le giacchette indossate dalla cancelliera e immancabile gesto delle mani a “triangolo rovesciato”. Analogamente, a Weilbach un pasticciere ha realizzato dei biscotti di marzapane ritraenti il volto di Merkel. Uno sviluppo impensabile quando arrivò al Kanzleramt per essere chiamata la “cancelliera Teflon”, colei che si fa scivolare tutto addosso, la quintessenza della noia, con quel suo piglio da scienziata che predilige il tedio pragmatico come strumento di governo, tanto da farle usare come slogan «Voi mi conoscete». Ossia: sono prevedibile, ma anche rassicurante e solida. Una certezza pure in tempi turbolenti.


Ecco, la noia è anche una delle principali ragioni del successo di Olaf Scholz, della sua inattesa popolarità. E lui, peraltro vicecancelliere nonché ministro delle Finanze del governo Merkel, lo sa benissimo, tanto da farne una delle chiavi della campagna elettorale, sotto l’attenta regia del segretario generale dell’Spd, Lars Klingbeil. «Proprio così», conferma a L’Espresso il giornalista Werner Perger, già vicedirettore della Zeit, considerato uno dei maggiori esperti della socialdemocrazia europea. «Il suo essere noioso come Merkel ha dato i suoi frutti: Scholz uno che non si agita, è un super-pragmatico, e in questo buona parte dell’elettorato vede una forma di continuità. Ricordiamoci che lo chiamarono “Scholzomat”, per il modo quasi robotico di rispondere alle domande dei giornalisti: ebbene, quello che era considerato il suo difetto oggi è diventato un vantaggio. Lo “Scholzomat” è il suo “voi mi conoscete”».


È proprio nel corto circuito creato dall’addio merkeliano che si è innestata la spirale del comeback targato Spd: dopo 16 anni nei quali la cancelliera ha sistematicamente intercettato voti in arrivo dall’Spd e dai Verdi, ora che la Cdu dell’avversario Armin Laschet ha cercato di riprendersi l’identità conservatrice dissoltasi nella post-ideologia di “Angie”, quei voti forse tornano da dove erano venuti. Sembra pensarla così anche il politologo Johannes Kiess: «Il punto è che Scholz simboleggia al tempo stesso un cambiamento e una forma di stabilità rispetto all’era Merkel», ci spiega il professore, docente sia a Siegen che all’Università di Lipsia. «Però attenzione: la netta volatilità mostra anche che gli elettori conquistati adesso possono anche allontanarsi di nuovo con grande rapidità».

 

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Benissimo: ma non si era sempre detto della grande crisi dei partiti progressisti ai quattro angoli d’Europa, dell’allontanamento dalle classi lavoratrici e dagli ultimi in nome della politica liquida, della sinistra dei salotti che ha dimenticato le periferie? A sorpresa Wolfgang Schroeder, docente a Kassel ed ex segretario di Stato al ministero del Lavoro nel Brandeburgo fino al 2014 proprio tra le fila dell’Spd, la vede diversamente. In un’intervista alla Taz che è passata di mano in mano tra i militanti socialdemocratici, il professore afferma che «nessun partito è così forte nella società tedesca come l’Spd, perché ha mantenuto un saldo legame con i sindacati, con il volontariato, con le Chiese, nello sport e nel mondo della cultura». Certo, aggiunge Schroeder, «non è più il partito di classe di una volta, e ha incassato forti deficit in quanto a rappresentanza, ma è ancora radicata sul territorio». Persino in Länder nei quali i socialdemocratici negli ultimi anni hanno pesantemente arrancato, come la Sassonia, la Turingia e il Baden Württemberg, si sono registrati segnali di ripresa. In Meclemburgo i sondaggi preconizzavano addirittura un trionfo che sfiora il 40% dei voti, grazie alla popolarissima governatrice Manuela Schwesig.


È la formula di una Spd “di lotta e di governo” che a questo giro sembra aver fatto presa: nel caso di Scholz, da ministro delle Finanze ha assicurato ai tedeschi miliardi su miliardi per sostenere l’impatto della pandemia da coronavirus, al tempo stesso è stato rapido nell’abbandonare il dogma dello “zero nero”, ossia della disciplina del bilancio in pareggio, così come ha pienamente sostenuto il Recovery Plan per l’Europa lanciato dalla cancelliera con la complicità di Emmanuel Macron. È riuscito ad incassare la riforma della pensione minima, e oggi ha dunque gioco facile nel rendere credibile la sua proposta, che martella a ogni comizio e a ogni duello televisivo, dell’aumento del salario minimo a 12 euro. Appunto: a Berlino tutti ti ripetono che in realtà il fattore cruciale nel “rinascimento” dell’Spd è stato quello di aver scelto il candidato giusto. Scholz funziona nel “centro borghese” del Paese, in modo non del tutto dissimile a quanto accadde a suo tempo con Helmut Schmidt e Gerhard Schroeder. Rassicurante, anche per chi oggi fugge dalla Cdu.


E pensare che la traiettoria dello Scholz degli ultimi anni, era stato, tra le altre cose, ministro al Lavoro e borgomastro di Amburgo, è iniziata con un cocente insuccesso. Nel 2019 nella battaglia per la guida dell’Spd fu battuto dalla coppia Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, spinta dalla sinistra del partito: un risultato che aveva fatto temere che l’Spd finisse ostaggio delle pulsioni massimaliste, secondo uno schema antico come il Novecento. La campagna elettorale finora dimostra il contrario: il duo Esken & Walter-Borjans si è tenuto elegantemente in disparte, così come anche Kevin Kuehnert, l’ex capo degli Jusos (i giovani socialdemocratici), che dopo la devastante sconfitta elettorale del 2017 aveva fatto fiamme e fuoco perché la Spd non accettasse un ritorno nella Grosse Koalition con la Cdu/Csu di Merkel. Cosa che invece puntualmente si verificò, al termine di sei mesi di tormenti, agitati congressi e consultazioni della base. Ebbene, ora tutti zitti.

 

Qualche compagno della prima ora, a microfoni spenti, giura che è tutto concertato sin dall’inizio, che la corsa alla cancelleria del moderato Scholz sia farina del loro sacco, e che l’obiettivo finale sia quello di mettere in piedi una coalizione “rosso-rosso-verde”, formata da Spd, Verdi e dalla Linke, il partito della sinistra, opzione descritta come una mezza apocalisse da Laschet & co. Ora, magari è fantapolitica, «ma di sicuro i leader del partito avranno un ruolo cruciale al tavolo dei negoziati per il futuro governo», prevede Werner Perger. Un segnale in questo senso potrebbe essere il fatto che ben 80 esponenti degli Jusos si candidano per il Bundestag. «Siamo il partito che piazza il maggior numero di giovani», esclama la loro leader, Jessica Rosenthal.


La verità è che la Spd 2.0 è un mix formidabile di passato e presente. Nel mondo scholziano c’è la giustizia sociale, un’attenzione “vivace eppur temperata” ai temi climatici, le pensioni stabili e la digitalizzazione: ma nelle piazze, sui poster elettorali e sui social media sembra funzionare alla grande pure l’orgoglio socialdemocratico. Quando Laschet esclamò che la Spd era sempre stata «dalla parte sbagliata della storia» è stato sommerso da tweet con la foto di Willy Brandt che si inginocchia, nel 1970, al culmine della Ostpolitik, davanti al memoriale alla rivolta del Ghetto di Varsavia. Non solo: a Dahlem, nel distretto berlinese di Steglitz-Zehlendorf, ha fatto la sua comparsa un manifesto con il quale l’Spd chiamò a votare nel 1972, con la famosa foto dello stesso Brandt in maniche di camicia che suona il mandolino e l’immancabile sigaretta all’angolo della bocca. Addirittura, poche centinaia di metri più in là, si scorge un manifesto che inneggia alle «Donne per la libertà e la pace: votate i socialdemocratici!». Anche questo è un manifesto tutto rosso, datato 1932. Back to the future.