Migliaia di persone sono fuggite dai talebani e ora si trovano in Europa o negli Stati Uniti.« Siamo sradicati, persi»

La settimana scorsa un uomo ha bussato alla porta di Mohammad Qasem Razawi nella provincia del Badakhshan, Afghanistan. Portava la notizia che suo nipote, Sohail, era vivo e in buona salute in una casa di Kabul.

 

Sohail era scomparso quando aveva solo due mesi, il 19 agosto, dopo che la capitale era caduta di nuovo in mano ai talebani, nei giorni furibondi delle evacuazioni dall’aeroporto Karzai.

 

Il padre di Sohail, Mirza Ali Ahmadi, aveva lavorato a lungo per la sicurezza dell’ambasciata americana e alla notizia dell’entrata in città degli studenti coranici non ha avuto un attimo di esitazione: doveva lasciare il Paese. Così si è diretto verso lo scalo con la moglie e i cinque figli. Ha consegnato Sohail, a un soldato americano, e ha fatto passare i figli più grandi oltre la rete metallica. Poi solo disordine. Le persone che si calpestano, gli anziani che cadono, le grida di chi vuole passare, presto, essere salvato. E Sohail che scompare nella ressa.

 

Da allora la sua famiglia ha perso le tracce del bambino. Impossibile trovarlo, impossibile sapere dove fosse finito nei giorni della grande, disperata, fuga afghana.

 

I suoi genitori il 20 agosto sono arrivati negli Stati Uniti, con la doppia pena dell’esilio e di un figlio scomparso. Fino a pochi giorni fa, quando un giovane tassista di Kabul, Hamid Safi, ha riconosciuto il bambino sulle immagini delle persone disperse e ha contattato il nonno, rimasto in Afghanistan. Hamid Safi aveva trovato il bambino a terra, nei pressi dell’aeroporto. Gli ha dato un nome, Mohamed Abed, e l’ha cresciuto con sua moglie.

 

Sohail è uno delle centinaia di bambini separati dalle famiglie, tragica conseguenza di una evacuazione che ha portato fuori dal paese 120 mila persone con un gigantesco sforzo organizzativo di eserciti, organizzazioni umanitarie, benefattori privati ma che oggi comincia a svelare le sue ombre.

 

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La notte del 14 agosto anche Shahab Qarib era con suo figlio Omar e sua moglie Fatima, quando è stato raggiunto dalla notizia che i talebani stavano assaltando la prigione di Pul-e Charkhi alla periferia della capitale. Si è chiuso in casa, ha raccolto in una busta i dollari che aveva nascosto in caso di emergenza e ha provato a dormire, invano. Quando si è fatto giorno è uscito. Intorno a lui un magma di metallo, automobili dirette verso un altrove qualsiasi che non fosse Kabul. Per tutti un solo pensiero: andare via.

 

Sì, ma dove?

 

Shahab è tornato indietro a chiedersi cosa fosse giusto fare. Nei sei anni precedenti aveva lavorato come giornalista per una agenzia di stampa locale ed era stato traduttore di numerose testate internazionali e sporadicamente delle ambasciate europee. Aveva buoni rapporti con i funzionari del governo Ghani ed era stato cauto abbastanza da tenere rapporti distesi anche coi vertici talebani. Era necessario per far lavorare i giornalisti internazionali, ed era un gesto astuto perché, in un paese come l’Afghanistan, è sempre meglio mediare. Se avesse avuto tempo di valutare con lucidità i pro e i contro, le azioni da fare e le reazioni da temere forse, il 29 agosto, non avrebbe attraversato il cancello di Abbey Gate per lasciare il Paese per sempre. Ma quel tempo non l’ha avuto, così ha preso i dollari, la moglie, il latte in polvere per Omar, ed è scappato.

 

Oggi Shahab vive a Nordhausen, in Germania, in un complesso alla periferia della città. Lì ci sono delle abitazioni che il governo tedesco mette a disposizione dei rifugiati. L’appartamento di Shahab è al quinto piano, una cucina, due stanze e un bagno. Al primo sguardo la casa è calda, spaziosa, e lui è riconoscente al Paese che lo ha accolto e lo ospita. Al secondo sguardo la casa è vuota, non c’è un giocattolo per Omar, né un tavolo per mangiare. E Shahab ha lo sguardo triste di un uomo di trent’anni che ha perso la vita che aveva, un lavoro stimato, la casa costruita con anni di sacrifici, la famiglia larga con cui dividere i pasti, sempre abbondanti.

 

Da quando ha lasciato Kabul ha perso quindici chili. Non riesce a mangiare. Si guarda intorno spaesato come chi si è perso e non riesce a trovare la strada di casa. È la sensazione che ha ogni giorno, quando rientra dal corso di tedesco obbligatorio nel percorso di integrazione. Tiene i libri sotto braccio, cammina per cinque chilometri. Poi arriva sotto l’edificio che lo ospita e pensa che nessuno gli rivolge la parola. Nessuno in due mesi gli ha chiesto come stia, se ha bisogno di qualcosa, se gli manchi casa sua, se suo figlio desidera una macchinetta giocattolo.

 

Una sola volta sua moglie Fatima ha provato a portare Omar ai giardini pubblici ma nessuno si è avvicinato. Così il bambino, che non frequenta la scuola, trascorre le giornate nel vuoto della casa di Nordhausen. Senza mai vedere un bambino.

 

«Ho due date di nascita. Nel 1990 è nato l’afghano Shahab, nell’estate del 2021 è nato l’esiliato Shahab», lo dice mentre fuori dalla finestra il pomeriggio diventa sera, e sua moglie sposta i materassi a terra, a formare un ferro di cavallo, sistema al centro della stanza due piatti con la frutta secca e un termos con il the. Un simulacro di casa. Un pezzo di Kabul a migliaia di chilometri dall’addio.

 

Essere un giornalista, per lui, significava trovare le parole per una generazione che stava cercando una lingua comune. La lingua dei diritti conquistati e di quelli negati, delle donne emancipate e di quelle costrette sotto i burqa, dei suoi coetanei combattenti e di quelli addestrati da Stati Uniti e Nato. La lingua delle contraddizioni. In quei contrasti, Shahab, sapeva vedere il domani. Oggi il futuro non riesce a immaginarlo: «Il futuro è una lente sfocata. Insieme alla mia terra mi pare di aver perso la vista».

 

Oggi Shahab vive la cecità e la solitudine dell’esiliato. Trascorre le sue giornate studiando il tedesco, a casa e a scuola, tentando di riempire i vuoti.

 

I voli di evacuazione, terminati il 31 agosto, hanno portato negli Stati Uniti circa 80 mila persone e in Europa circa 30 mila. Da allora, nonostante l’intenzione di trasferire altre persone che erano rimaste indietro, i voli charter organizzati dagli Stati Uniti, sono riusciti a evacuare solo altre 3 mila persone.

 

L’operazione si richiamava alla libertà vigilata umanitaria, o non-combatant evacuation operations (Neo), che consente l’ammissione negli Stati Uniti per «ragioni umanitarie urgenti» o «beneficio pubblico significativo». Passati quattro mesi dalla presa di Kabul, è opinione comune dei funzionari della Casa Bianca che questa modalità non possa rappresentare una soluzione a lungo termine: è politicamente sgradevole e rischia di sostituire i normali tempi di richiesta di protezione umanitaria.

 

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Haseen Fatima Amini aveva già vissuto fuori dall’Afghanistan. Tre anni fa aveva ottenuto una borsa di studio con l’Uwc, United world colleges, una rete internazionale di scuole che lavorano con l’obiettivo comune di fare dell’educazione una forza per unire persone, nazioni e culture per la pace. La sua era una delle 400 domande che ogni anno arrivavano all’organizzazione da giovani ragazze e ragazzi afghani.

 

Haseen aveva studiato in Gran Bretagna e in Bosnia per un anno, poi i fondi della borsa di studio non erano stati rinnovati e Haseen aveva fatto ritorno in Afghanistan, cominciando a collaborare come traduttrice per le ambasciate anglofone. Quando i talebani sono entrati a Kabul gli studenti dell’Uwc che avevano condiviso con lei i mesi di corso hanno attivato una rete per portare lei e la sua famiglia fuori dall’Afghanistan. Dopo otto giorni accampata fuori dall’aeroporto, Haseen è riuscita a volare via. L’ultima immagine nella sua terra la ritrae velata di nero intorno ad Abbey Gate. Oggi Haseen è una giovane studentessa che vive in uno studentato di Madrid, indossa un berretto giallo di lana e un maglione colorato.

 

A vederla dallo schermo di un pc sembra una giovane spensierata, ha il sorriso di chi tiene il mondo nel palmo della mano. Ma Haseen, nel descriversi, si dice una «sradicata».

La accompagna la fame della conoscenza, i libri che sempre le fanno da guida, ma anche il senso di inadeguatezza al pensiero dei 5 mila afghani che ogni giorno attraversano i chilometri desertici che lungo il confine occidentale dell’Afghanistan portano in Iran, e i confini terrestri chiusi con il Turkmenistan, con l’Uzbekistan, con il Tagikistan e la Cina: «Sono ormai un’afghana della diaspora, e voglio che la mia pena si trasformi in responsabilità. Sono il caos e il caso ad aver salvato me e non altri. Non lo dimentico e non dovrebbe dimenticarlo nemmeno l’Occidente».