Sud America
Il Brasile che si avvicina al ballottaggio tra Lula e Bolsonaro è un Paese spaccato in due
L’ex presidente di sinistra sognava di riportare la serenità ma è stato schiacciato dall’ombra della corruzione che grava ancora sul Partito dei lavoratori. L’uscente di destra ha dalla sua soldi, potere e più consenso di quanto prevedessero i sondaggi
Il risveglio è brusco, una doccia fredda. Come un brutto sogno, ma è la realtà. Per la sinistra brasiliana raccolta attorno a una coalizione di dieci partiti e sigle, dal centro destra ai verdi, il successo di Luiz Inácio Lula da Silva (76 anni) al primo turno delle elezioni per il futuro presidente, è una vittoria amara. Ha incassato 57 milioni di voti. Tanti, il 48,43 per cento dei 156 milioni che si sono recati ai seggi.
L’ex operaio tornitore, leader del sindacato metalmeccanici, per due volte presidente del Brasile, tra i Grandi del Sud del mondo, quello dei poveri, della scuola per tutti, del cibo a tavola almeno una volta giorno, quello del serbatoio delle materie prime che alimentavano la locomotiva cinese, ha raccolto il più alto numero di preferenze. Ma non è bastato. Ha mancato il colpo che accarezzava in segreto e che non osava svelare. Strappare subito lo scettro del potere e offrire nuove speranze a un Paese triste e diviso, prigioniero di rancori e di rivalse frustrate.
I sondaggi, i grandi colpevoli delle elezioni più sentite da quando è tornata la democrazia (1986), da giorni annunciavano il trionfo del vecchio leone. Era giunto il momento del riscatto. Il culmine di una rimonta: dalla gogna in tv di un processo per corruzione, ai 580 giorni di carcere duro, fino all’annullamento delle sentenze e lo slancio verso la nuova candidatura alla guida del Paese. Il responso delle urne è stato diverso.
La destra di Jair Bolsonaro, una destra estrema, violenta nelle parole e ossessiva sui nemici da combattere, si è rivelata più forte del previsto. Gode ottima salute, nonostante le critiche mosse negli ultimi quattro anni al suo leader. Per le frasi taglienti, le battute feroci, la nostalgia di una dittatura (1964 -1985) che tutti hanno cancellato, la gestione disastrosa del Covid-19, i 640 mila morti per la pandemia, i vaccini negati, le mascherine osteggiate, la cultura delle armi, la negazione dell’identità di genere, la difesa delle milizie paramilitari nelle favelas, dei soldati e della polizia nelle stragi, lo scempio dell’Amazzonia.
Ammette all’Espresso Jean-Jacques Kourliandsky, ricercatore presso l’Iris, docente di Storia e direttore dell’Osservatorio sull’America Latina della Fondazione Jean Jaurès a Parigi, uno dei massimi analisti del Continente: «Gli istituti di sondaggio hanno giocato un brutto scherzo a Lula. È arrivato primo, ma visto lo scarto di punti che le rilevazioni gli assegnavano rispetto al suo avversario, questo primo turno è sembrata una vittoria di Pirro. Il presidente uscente, con i suoi seguaci, possono al contrario raccogliere nuove energie e un vigore importante per il ballottaggio».
Dietro la forza di Jair Messias Bolsonaro (67 anni) ci sono una montagna di quattrini e una collaudata macchina della propaganda. C’è anche quel netto rifiuto nei confronti del fondatore del Pt che contagia oltre la metà dell’elettorato. Sono passati dodici anni dall’ultimo e secondo governo Lula (2002-2012) e il marchio della corruzione resta impresso. La tempesta provocata dallo scandalo Odebrecht, dal nome del ceo della più grande holding delle costruzioni brasiliana in America Latina, ha trascinato nella polvere mezzo gruppo dirigente del partito e travolto lo stesso leader.
L’uomo che vuole far «sorridere» di nuovo il Brasile, ridare speranza e felicità a un popolo afflitto dalla “saudade”, è dovuto partire in difesa. Si è scusato davanti a un pubblico che lo ascoltava e guardava con sospetto. Ha ammesso le tangenti del suo partito. Lo ha detto con umiltà e pieno di vergogna. Ma non è bastato. Restava viva nella memoria di tutti la storia del triplex, l’attico con vista sul mare, ricevuto, secondo l’accusa, in cambio di un appalto pubblico. Un caso controverso, mai provato pienamente. Lula si è sempre dichiarato innocente. Passare per un corrotto lo umiliava. Era una ferita insopportabile. Non ha colpe personali. Sapeva, probabilmente, quanto accadeva nel suo Partido dos Trabalhadores, ma faceva finta di niente.
È stato condannato a 10 anni aumentati a 17 in appello. Una pena esemplare, esagerata, dubbia secondo centinaia di giuristi, intellettuali, premier, ex capi di Stato che gli hanno offerto la loro solidarietà. È finito in prigione. È sprofondato nel pozzo dell’infamia, trattato come un volgare ladro, nel momento peggiore della sua vita politica e umana. È morta la sua seconda moglie, da sempre compagna di lotta e di ideali, gli è stata negata la possibilità di partecipare, in manette, ai funerali del suo più caro nipote, ha dovuto rinunciare a candidarsi come presidente nel 2018. Diciotto mesi durissimi.
Solo grazie a una sentenza della Corte suprema federale, che ha riconosciuto un conflitto di competenza tra uffici giudiziari, le sue condanne sono state annullate. Merito anche del sito investigativo The Intercept Brasil che ha pubblicato gli screenshot delle chat segrete su Telegram tra Moro e il pool dei pm nelle quali il giudice incitava i colleghi a trovare elementi di prova contro l’imputato eccellente, indicando dove e come. La sua mancata imparzialità, come previsto dalla procedura, era inciampata su un chiaro spirito persecutorio.
Il clima stava cambiando. Jair Bolsonaro aveva vinto a mani basse contro un Fernando Haddad, braccio destro di Lula, gettato all’ultimo nell’arena al posto del capo in prigione. Governava con il vento in poppa. I sondaggi lo davano in ascesa. Il Brasile inneggiava al suo “mito”. L’ex capitano, il deputato che per 22 anni aveva presentato una sola proposta di legge, che tutti consideravano una specie di macchietta, si confermava l’uomo del rilancio politico e morale.
Con lui, la destra aveva espresso una forza inaspettata. Raccoglieva l’insofferenza diventata disprezzo per i 12 anni di dominio ininterrotto del Pt. Ben oltre la metà dei brasiliani aveva finito per odiare Lula e tutto quello che significava. Aveva dimenticato i milioni di poveri sfamati, il diritto per tutti all’istruzione, all’assistenza sanitaria, la difesa del salario minimo, gli aiuti della Bolsa Familia che restituivano dignità anche agli ultimi.
In Brasile si respirava aria sempre più tesa, si denunciava un chiaro clima da fascismo. Solo la giustizia difendeva i suoi confini da un potere che li infrangeva con la forza. Gli equilibri istituzionali traballavano. La violenza diffusa era diventata selettiva. Con gli omicidi politici, come quello dell’attivista femminile Marielle Franco, deputata regionale a Rio de Janeiro. E razziali, come le stragi di ragazzini di colore nelle favelas. Il nuovo alfiere dell’ordine e della lotta al comunismo si era trasformato in oppressore.
Ogni critica respinta, aperto sostegno all’agrobusiness, alle invasioni di terre indigene per gli allevamenti e coltivazioni intensive, allo sfruttamento delle risorse in Amazzonia da parte di razziatori illegali e industrie energetiche. Solidarietà ai militari e alla polizia invitati a sparare per primi, il culto delle armi da contrapporre alla pacificazione nelle sterminate periferie. Il sostegno alle chiese evangeliche, grazie alla terza moglie, Michelle, fedele da sempre della potente Chiesa universale di Dio, per ricambiare i voti decisivi alla sua elezione.
Bolsonaro ha finito per attribuire un valore mistico alla sua missione. In sella alla moto, protetto da stuoli di centauri, radunava i suoi fan davanti al Parlamento, li incitava ad attaccare il Palazzo che gli impediva di governare. Lanciava strali sulla Corte suprema che indagava sul potere economico accumulato dal suo clan familiare. Si appropriava della bandiera verdeoro per nazionalizzare i sentimenti, cresceva con le fake sui social, rifiutava ogni confronto.
Era il Bene contro il Male. Contro i diritti civili, le identità di genere, il disprezzo per i gay e i trans, il fastidio per i media sempre pronti a criticare. Era affascinato da Donald Trump. Lo emulava in tutto. Lo ha fatto anche in queste elezioni, contestando il voto elettronico, in vigore da 26 anni senza mai una sbavatura, minacciando di rifiutare il risultato se fosse stato sfavorevole. I dati gli hanno restituito quella sicurezza che i sondaggi avevano intaccato. È arrivato dietro Lula ma la sua è una vittoria.
Ricorda ancora Kourliandsky che ci accompagna in questa rievocazione, che «la sinistra brasiliana è stata sempre minoritaria in Parlamento, anche durante gli anni di Lula dal 2003 al 2011. È una realtà presente in tutta la sinistra latinoamericana. Nonostante i successi delle presidenziali, dal Perú alla Colombia, passando per l’Argentina e il Cile, la destra ha ancora la forza per imporsi. I peronisti hanno perso le elezioni di metà mandato l’anno scorso in Argentina. La Costituzione di sinistra, sostenuta dal presidente Gabriel Boric, è stata bocciata dagli elettori cileni. Pedro Castillo è presidente del Perú da un anno ma fatica a governare. Gustavo Petro che guida la Colombia dal 7 agosto si è reso conto che il Parlamento è dominato dalla destra. Sa che deve agire in fretta e bene prima che i conservatori, i liberali e il Centro democratico gli rendano la vita dura. Il contesto non è solo presente in Brasile. Riguarda tutta l’America Latina, e forse ben oltre: la stessa Europa».