La storia
Giocatore di rugby, ferito negli attentati del 13 novembre 2015, Aristide Barraud racconta come è rinato. Grazie all’arte, alla scrittura e alla fotografia. Capaci di trasformare anche le banlieue
di Aristide Barraud
Ero giocatore di rugby a Mogliano, in prima divisione italiana. A un passo dalla Laguna da Venezia, dove i palazzi invecchiano lentamente, rosicchiati dal mare, dal sale e dal vento.
Sono stato ferito negli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. Ero tornato a casa per trovare mia sorella e i miei genitori: pochi giorni a Massy nella mia banlieue Sud. Sono stato ferito tre volte da proiettili da guerra. Mia sorella è stata ferita al braccio.
Dopo le nazionali giovanili francesi, a un passo dalla nazionale italiana, quei colpi mi hanno spedito in un mondo sconosciuto, a camminare sul filo della vita. Ero leader di gioco, parlavo tanto sul campo, urlavo le direzioni di gioco alla mia squadra, correvo chilometri come se fossero territori da scoprire. Ho preso una pallottola al polmone. Calciavo un pallone ovale tra due pali per vincere e validare il duro lavoro di tutti. Ho preso due pallottole nelle gambe.
Mia sorella era acrobata di circo, flyer professionista, viveva sottosopra. Ha preso una pallottola nell’avambraccio.
Una settimana dopo gli attentati, lei mi ha detto che le prove più difficili capitano a quelli capaci di superarle. Tra interventi e allenamenti al limite del sopportabile, per un anno e mezzo ho cercato di tornare sul campo. Alla fine ho rinunciato e non ci sono mai tornato sul campo. Dopo un’intervista al giornale L’Equipe, Le Seuil, una delle case editrici francesi più prestigiose mi ha convinto a scrivere, e l’ho fatto.
“Mais ne sombre pas”, il mio primo libro è uscito nell’ottobre 2017. Ci ho messo tutto il cuore. Non è una testimonianza classica, non volevo fermarmi agli attentati. Mi sono concentrato sulla vita, sulle storie che mi hanno dato gli strumenti per continuare a vivere, affrontarla e cercare la pace. Sono cronache che dovevano aiutare altri. Perché viviamo tutti i nostri momenti di demolizione e volevo mettere il mio sasso nel muro, nella barriera che possiamo costruire collettivamente, come una base stabile per vivere insieme.
Ed è stato un grande successo di critica e di pubblico. Ma, dopo l’onda mediatica, mi sono trovato davanti all’evidenza della distruzione, alle rovine del mio mondo precedente. Allora sono andato via, sono tornato nell’ombra. Ho vissuto in mezzo all’oceano Atlantico su un’isola con i pescatori o nei boschi profondi della Francia, nella roulotte guasta che mi ero comprato. Ho vissuto sui tetti di Parigi, di Massy o di Venezia dove tornavo spesso.
Mi trovavo bene sui tetti perché potevo essere nella città ma come all’esterno, trovando altezza e orizzonte. Ho capito allora che la scrittura, poco a poco, è diventata la mia vita. Esistevo con una macchina fotografica nella mano, una penna nell’altra, rullini fotografici e libretti in tasca. Ho cominciato a scrivere su tutto, scrivere ancora, scrivere sempre. Andavo di notte nelle strade di Parigi, sui tetti, sui camini. Ho messo la stessa determinazione, la stessa disciplina, lo stesso rigore che mettevo in pratica come giocatore.
A dicembre 2019 questo lavoro è stato notato dall’artista JR: mi ha selezionato per la sua sezione nella scuola “Kourtrajmé” creata dal regista Ladj Ly un anno prima. Eravamo 1.600 candidati, siamo stati 12 alla fine, meno di una squadra di rugby. È stato un regalo del destino perché dopo una vita di squadra, mi sentivo da solo con i miei progetti, con i miei dubbi. Lì, per 9 mesi, sono stato a contatto con pittori, disegnatori, fotografi di grande talento. Solo due avevano letto il mio libro, sapevano del mio passato. Gli altri mi hanno incontrato come un ragazzo di 30 anni, affamato di tutto quello che si presentava.
È stato come vivere un altro diciottesimo anno. Quando il mondo si apre davanti a te, quando le barriere sono la tua paura e la mancanza di esperienza. Io però, ero a mio agio con le mie paure e quanto all’esperienza avevo vissuto successi e sconfitte formatrici. Ero pronto per questa nuova vita.
Il primo giorno di scuola ho alzato gli occhi verso il cielo ho visto un palazzo gigante della periferia Nord di Parigi. Deserto, quasi dimenticato, già vuotato del suo mobilio. Era il B5, palazzo 5 del quartiere “Les Bosquets” a Montfermeil (93), ultimo delle 12 barre di costruzione originale. Quartiere utopico degli anni ’60, diventato in quattro decenni un ghetto francese. Quel primo giorno, dopo le lezioni, ci sono entrato.
E nell’inverno 2020 mi sono introdotto nel cantiere come un fantasma, mi sono mischiato con gli operai demolitori, avendo fede nella mia stella e nella mia fortuna. Sono stato con loro per giorni: si spaccavano il corpo a rompere, caricare, buttare per uno stipendio misero.
Non ho cercato di creare amicizie, sono solo stato lì, silenzioso con loro. Ma le rovine hanno questo potere di unire le persone che si riconoscono. Dopo ore di conversazioni nei piani senza finestre, nel vento glaciale, mi sono accorto che una grande parte di loro era cresciuta in questo palazzo. Distruggevano la casa della loro infanzia. Ho fotografato alcuni di loro nei salotti, nelle camere dove le loro famiglie vivevano ancora poco tempo fa. Tutto con la pellicola, in bianco e nero. Ho fatto delle stampe di grandi dimensioni e abbiamo fatto dei collage di queste immagini nelle stanze.
Io scrivevo sui muri e dal mese di luglio 2020, il palazzo è diventato una mostra gigante di 10 piani. Con i ragazzi del quartiere, ex abitanti del palazzo, schivavamo la vigilanza e di notte salivamo sul tetto con pennelli e pennarelli per scrivere intorno ai collage. All’inizio pochi scrivevano ma, piano piano, i muri sono diventati neri di parole scagliate come delle frecce nel vento caldo dell’estate. Guardavamo il tramonto prima di iniziare a parlare del passato, delle nostre vite, di tutte le vite del B5.
In autunno, una macchina di trenta metri e stata posizionata nel cantiere del palazzo 5, come l’angelo della morte. Lo spuntino del palazzo è iniziato cosi, con un morso solo, poi due, poi tre. Allora tutte le opere che avevo creato in 10 mesi apparivano poiché Ie pareti cadevano per terra.
In quel momento preciso ho sentito che dentro di me le rovine si erano già riequilibrate in una forma piacevole. Ho sentito che la distruzione si allontanava. Non avevo anticipato nulla, non ho calcolato nulla, ho solo iniziato un progetto artistico mentre non sapevo neanche cosa fosse. Me lo insegnava JR ogni giorno, come un maestro di un’altra epoca. Era sempre presente per rispondere alle mie domande, chiarire i dubbi, aprire altre strade, farmi incontrare persone giuste. Ho realizzato un film di venti minuti su questo progetto, è stato scelto per alcuni film festival nei prossimi mesi. Si chiama “Courte Vie Pleine”, breve vita piena, perché il B5 aveva solo 56 anni d’esistenza alla sua fine. Aveva conosciuto così tanta gente, aveva accolto così tante storie umane, il quotidiano di un quartiere povero, drammi e momenti di felicità.
Ho scritto un libro di scrittura e di fotografie. È uscito un mese fa in Francia con la mia casa editrice, “Le Seuil”, che mi dà fiducia. Sono nell’età in cui dovrei comunque uscire dal campo di rugby. Sono felice della mia breve vita piena, felice di ogni giorno, sempre architetto del mio destino. Non ho paura di niente perché credo sempre nella mia capacità di trasformazione. Anche se lo sceneggiatore della mia storia ha troppa immaginazione.
Questo mese inizio un romanzo che ho nella testa e nei miei taccuini da cinque anni. Questa scrittura sarà un momento di verità. Sono tornato a vivere in Italia, a Venezia, dove i palazzi invecchiano lentamente, rosicchiati dal mare, dal sale e dal vento.
La settimana scorsa, all’uscita del mio libro, mia sorella mi ha scritto una lettera col nostro motto: «C’è quello che ci accade e quello che ne facciamo». Io, quello che faccio è rinascere dalla polvere, rinascere dal peggio. E credo tanto in noi. Noi tutti. Io e gli altri.