Passeggiando lungo Boulevard Voltaire a Parigi in questi giorni viene spontaneo lanciare un’occhiata all’insegna luminosa all’entrata del Bataclan, dove sfilano i nomi degli artisti pronti a esibirsi nel teatro le prossime settimane. Sono tanti, a dimostrazione che qui il tempo non si è fermato il 13 novembre 2015, quando 90 persone furono uccise da un commando armato di tre terroristi legati all’Isis in una sala piena per il concerto degli Eagles of Death Metal (Eodm).
Quella sera gli attentati di matrice islamica a Parigi furono diversi. Tre esplosioni intorno allo Stade de France - dove era in corso un’amichevole tra i Bleues e la Germania - e sei sparatorie in diversi luoghi pubblici della città. In totale 130 morti e 368 feriti. Oggi molti dei sopravvissuti agli attacchi, nonostante momenti difficili, sono tornati alla normalità.
Tra loro c’è Natasha, reduce del Bataclan. L’incontro con questa 45enne francese di origini italiane dai capelli biondi avviene al bar di un ostello al confine nord di Parigi. Nel 2015 Natasha lavorava in una biblioteca come responsabile della programmazione culturale. Fuori dall’ufficio, una festaiola appassionata di musica e concerti. Il 13 novembre allo show degli Eodm ci va con quello che all’epoca era suo marito. Dalla balconata del primo piano, è lui il primo tra i due a sentire gli spari in fondo alla sala. La coppia si barrica in un camerino assieme a una trentina di persone. Trascorrono due ore e mezza prima dell’intervento della polizia, con i terroristi e gli ostaggi nel corridoio accanto.
Le prime due settimane dopo l’attentato Natasha le passa chiusa in casa con le tende tirate. Dopo venti giorni il ritorno al lavoro, ma «non ero più concentrata e perdevo sempre più peso». A giugno 2014 il suo capo le concede un mese di ferie. E invece in biblioteca non ci torna più. Il periodo di pausa dura due anni, nei quali fa la spola tra Francia e Regno Unito. «L’Inghilterra mi faceva sentire bene. Avevo bisogno di scappare da Parigi, dove ogni cosa mi riportava con la mente all’attentato». Si rifugia nel silenzio fino al 2021; poi l’incontro con un fotografo che le scatena dentro la voglia di parlare.
Oggi Natasha ha un’altra vita. I concerti non li frequenta spesso e se ci va si assicura di essere vicino all’uscita di sicurezza. Ha un’energia ritrovata grazie a una figlia di quattro anni e un nuovo impiego da tatuatrice. «Per me aiutare le persone a esprimersi con il proprio corpo è una terapia». Al Bataclan però non ci ha più messo piede. Ci passa davanti solo il 13 novembre di ogni anno per la cerimonia di commemorazione.
Chi invece è tornato nella sala è Arthur Dénouveaux. Parigino dalla nascita, questo 36enne dagli occhi azzurri e la barba incolta lavora in una società mutualistica ed è presidente di “Life for Paris”, associazione delle vittime degli attentati del 13 novembre. Lui è tra quelli riusciti a scappare dal Bataclan poco dopo l’apertura del fuoco da parte dei terroristi. Sorseggiando un succo di pomodoro al tavolo di un bar a Saint-Lazare, parla di «dieci minuti che hanno stravolto tutto». A ferirlo di più nei mesi successivi è lo sguardo dei colleghi sul lavoro. «Ho avvertito un cambiamento. Un momento prima sei considerato valido. Quello dopo si chiedono se si possa fare affidamento su di te». Ad agosto 2016 lascia il posto in banca per il bisogno di ripartire da zero. E in questo senso Life for Paris gli cambia la vita. Nata come spazio di dialogo per le persone coinvolte negli attentati del 13 novembre, l’associazione si prefigge ben presto diversi obiettivi: un processo giusto, il risarcimento alle vittime, un aiuto psicologico adeguato e la costruzione della memoria collettiva. Nel 2019 Arthur ne diventa l’uomo in prima linea. «Si parla spesso del senso di colpevolezza dei sopravvissuti. In me si è formato invece il senso di responsabilità». Per il ruolo avuto in questi anni, è stato spesso dipinto come un eroe, ma la cosa gli crea fastidio. «Io sono una vittima come gli altri. Nel 2015 ero un qualsiasi 29enne nel pieno di una vita serena. Ero ottimista e spensierato. Quella spensieratezza l’attentato me l’ha tolta per sempre», precisa.
Oggi Arthur vuole archiviare la tragedia del Bataclan. In questo percorso lo ha aiutato il processo. «Inizialmente ho pensato di non testimoniare. Poi ho cambiato idea. Non volevo diventasse il processo dei terroristi. La voce delle vittime doveva essere la più importante». E lo aiuterà lo scioglimento di Life for Paris, previsto nel 2025. «Una volta raggiunti tutti gli obiettivi, bisogna capire che è ok dire basta. Fermarsi è il più grande dei traguardi».
La stessa voglia di chiudere i conti con quel passato ce l’ha David Fritz Goeppinger, un altro dei sopravvissuti. L’appuntamento con lui è in una brasserie davanti al tribunale di Parigi. Di origine cilena, cresciuto nella periferia sud della capitale francese, nella vita fa il fotografo e lo scrittore. Ma a novembre 2015, al tempo 23 anni, lavorava come barman nel quinto arrondissement. Ripensando a quel periodo, si definisce «un ragazzino sul punto di assaporare la libertà della vita adulta». La sera del 13 David rimane bloccato al Bataclan per quasi tre ore come ostaggio e viene costretto a collaborare con i terroristi. I primi mesi dopo l’attentato si accorge di dover rimettere tutto in gioco. Lascia il lavoro e casa dei suoi genitori, poi comincia a vedere uno psicologo. Come lui tanti altri.
Secondo un’inchiesta dell’Agenzia nazionale per la salute pubblica francese, ha intrapreso la terapia il 67 per cento delle vittime dirette di quegli attentati, toccate nel 54 per cento dei casi da disturbo da stress post traumatico. Nel 2017 David torna a fare il fotografo e scopre la passione per la scrittura, coronata nel 2019 con la pubblicazione di un libro sulla sua esperienza al Bataclan. Il processo, durante il quale ha la possibilità di redigere un diario di bordo dei mesi in aula per France Info, segna nella sua vita un punto di svolta. «Dopo anni di testimonianze per la prima volta c’era la giustizia ad ascoltare dall’altra parte». E la sentenza che il 29 giugno 2022 condanna Salah Abdeslam all’ergastolo senza sconti di pena e riconosce colpevoli altre 18 persone ha per lui il sapore della liberazione. Il marchio della vittima, però, se lo sente ancora addosso. «È impossibile toglierselo ma io non mi considero più tale. Quello della vittima non è un’identità, è uno status». A dicembre, David volerà in Patagonia con i suoi amici. Un viaggio previsto poco dopo l’attentato ma sempre rimandato. Ne parla con l’aria di chi non vede l’ora. «Si chiude un ciclo», dice sorridendo.