Geopolitica

Guerra in Ucraina, la doppia strategia americana per la pace. In nome della convenienza

di Sabato Angieri   21 novembre 2022

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Gli Usa assicurano sostegno a Kiev, ma senza assegni in bianco. Premono su Zelensky perché apra ai negoziati e hanno contatti con Mosca. La posta in gioco è molto alta: l’indebolimento della Russia e la riaffermazione dell’egemonia sull’Unione europea

«Con l’Ucraina fino alla vittoria», abbiamo spesso sentito ripetere in questi mesi. Ma se la vittoria è impossibile? Allora si inizia ad agire su un doppio binario, come stanno facendo gli Stati Uniti nelle ultime settimane. Da un lato c’è la linea dura, quella che dal 24 febbraio ha insistito urbi et orbi per il sostegno militare a Kiev e l’interruzione di ogni relazione con la Russia. Dall’altro, la convenienza che probabilmente è sempre stata nell’ombra, o meglio, che noi non abbiamo potuto vedere, ma ora entra in scena con la prepotenza del realismo. Anche in seguito ai frammenti di missili caduti in Polonia, sul territorio della Nato, gli Usa sono stati fin dalle prime ore i più cauti. Mentre i Paesi baltici e la Repubblica Ceca invocavano subito l’articolo 5 dell’Alleanza, Washington ha parlato di «verifiche necessarie» e ha stemperato i toni.

D’altronde, non è la prima volta che i funzionari e i militari Usa adottano questa strategia comunicativa. Mark Milley, il capo di stato maggiore congiunto statunitense, ovvero una delle tre figure al comando delle forze armate a stelle e strisce, è stato il primo alto ufficiale dei Paesi Nato ad ammettere la possibilità di uno stallo a tempo indefinito sul campo di battaglia. «Deve esserci un riconoscimento reciproco [tra Russia e Ucraina, ndr] del fatto che la vittoria nel senso proprio del termine probabilmente non è ottenibile con mezzi militari e quindi bisogna guardare ad altri metodi», ha dichiarato Milley all’Economic club di New York. Difficile pensare che le dichiarazioni di un ufficiale di quel rango siano improvvisate. Al contrario, ne dobbiamo trarre la conclusione che i vertici militari del principale alleato di Kiev, nonché leader della Nato, intravedono la necessità di trovare una soluzione diversa alla guerra. Si noti che lo stesso giorno (10 novembre) il presidente Biden aveva chiarito che il sostegno all’Ucraina continuerà, ma che a Kiev non è stato dato «un assegno in bianco»; in altri termini, non tutte le richieste ucraine devono essere soddisfatte. I droni di ultima generazione, per esempio, non saranno forniti «per scongiurare un allargamento del conflitto». Tuttavia, altri 400 milioni di dollari di aiuti militari sono stati approvati dal Congresso e inizieranno a essere consegnati a breve.

Il lunedì seguente due fatti hanno rafforzato la tesi che le dichiarazioni di Milley non fossero un caso isolato. In un lungo articolo sul quotidiano Wall Street Journal, si raccontava di come il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, il 4 novembre fosse atterrato a Kiev per provare a convincere il presidente ucraino a «mostrarsi aperto ai negoziati». Tale atteggiamento, secondo la diplomazia americana, contribuirebbe a mettere Kiev in una «posizione vantaggiosa» rispetto alla controparte sia sul piano della politica internazionale sia su quello mediatico. Sullivan avrebbe consigliato al presidente ucraino di pensare a «priorità e richieste realistiche» da presentare al tavolo negoziale con la Russia in modo da poter aprire una trattativa. Tuttavia, al G20 di Bali, Zelensky sembra non aver recepito affatto i consigli americani e i «10 punti per la pace» presentati all’assemblea si sono rivelati dei desiderata più che delle proposte concrete. Poco dopo, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha bollato le proposte del presidente ucraino come «non realistiche e non adeguate» in quanto «la Russia vuole fatti concreti e non parole» per iniziare un eventuale negoziato. Si noti che fino alla scorsa settimana i russi, Putin in testa, avevano sempre affermato di essere «aperti a trattare la pace», ma «partendo dall’attuale situazione sul campo».

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Mosca sa che Kiev non vuole rinunciare ai territori perduti dall’invasione a oggi e che quindi non accetterà di partecipare a una trattativa in cui Mariupol, Melitopol o la regione di Zaporizhzhia sono la moneta di scambio. Almeno per ora. Da qualche tempo, invece, i russi si dicono aperti alle proposte ucraine «senza pregiudizi». A dirlo è stato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, quindi, anche qui, non un personaggio che può permettersi di parlare senza consultarsi prima con il capo.

Per gli stessi motivi Sullivan avrebbe chiesto a Zelensky di «riconsiderare» la riconquista della Crimea. A differenza di quanti sostengono che entro la prossima primavera Kiev otterrà dei successi fondamentali, come l’ex capo delle forze armate Usa in Europa, Ben Hodges. Stando all’analisi del militare, il danneggiamento del ponte sullo stretto di Kerch e l’avvicinamento delle batterie ucraine al fiume Dnipro permetteranno alle forze ucraine di indebolire a tal punto i russi da poter riconquistare la penisola. Ma con i soldati di Mosca in ritirata dalla sponda ovest del fiume Dnipro parlare anche di restituzione della Crimea sarebbe forse eccessivo per intavolare una trattativa. Gli ucraini, tuttavia, non fanno che ripetere che presto a Sebastopoli sventoleranno di nuovo le bandiere gialle e blu.

E poi ci sono i contatti diretti con Mosca. In tale contesto il nome di Jake Sullivan è ricorrente. La settimana scorsa abbiamo scritto delle rivelazioni (sempre del Wall Street Journal) sulla linea aperta tra il consigliere americano e alcuni funzionari molto vicini al Cremlino. Ora scopriamo che si è passati agli incontri confidenziali in territorio neutro. La Cnn ha diffuso la notizia che il direttore della Cia, William Burns, ha incontrato il capo del Svr (l’intelligence estera russa), Sergei Naryshkin, ad Ankara. Si noti che l’incontro è stato voluto proprio da Washington, come il Cremlino non ha mancato di sottolineare. Stando a quanto dichiarato ai media, la missione di Burns era parlare della «gestione del rischio, in particolare il rischio nucleare e i rischi per la stabilità strategica» con la controparte russa. Si è anche tenuto a sottolineare che Kiev era stata informata per tempo dell’incontro, il che è molto significativo.

Diversi analisti iniziano a chiedersi se i rapporti interni nel governo di Kiev siano effettivamente così armoniosi come sono stati presentati. Il capo riuscirà, se dovesse presentarsene l’occasione, a imporre una linea che si discosta dalla riconquista totale dei territori occupati? La domanda è tutt’altro che scontata e rima con il ruolo preponderante che hanno le forze armate e i gruppi più nazionalisti all’interno dell’attuale amministrazione ucraina. Quanto, negli ultimi mesi, Volodymyr Zelensky sia riuscito a costruirsi un entourage in grado di assecondarlo e di difenderlo in caso di scelte impopolari è tutto da verificare. Dall’esterno abbiamo solo potuto prendere atto dei frequenti licenziamenti al vertice delle cariche statali e alla loro sostituzione con figure in apparenza più vicine alla linea del presidente.

Per lo stesso motivo anche la ritirata russa da Kherson e la liberazione della parte ovest della città non costituiscono di per sé un catalizzatore della pace. Anche se Zelensky stesso ha dichiarato che è «l’inizio della fine della guerra» e che il suo Paese è «pronto per la pace», tali parole sono (forse volutamente) ambigue. Si tratta della pace voluta dagli ufficiali ucraini, ovvero la vittoria contro l’invasore e la riconquista del territorio nazionale, o della pace tout court? Del resto, dopo gli attacchi di martedì, gli ucraini sono tornati a sostenere che «il terrore russo si può fermare solo con la forza delle nostre armi».

Tra i rappresentanti Usa sembra esserci chi ancora crede al sostegno all’Ucraina «a tutti i costi». Parlare di soldi non è fuori luogo se si pensa alle forniture di gas russo e ai rincari in Europa. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg continua a ripetere che servono più armi e che la Russia è «ancora pericolosa, anche se indebolita». L’ex vicesegretario alla Difesa statunitense, Evelyn Farkas, afferma che «l’Occidente non deve permettere a Putin di chiedere un cessate il fuoco» e la rappresentante permanente degli Usa alla Nato, Julianne Smith, dice che «la Nato e l’Ucraina godono di un forte sostegno bipartisan al Congresso […] non sappiamo quando la guerra finirà, ma siamo certi che l’Ucraina prevarrà».

Tale dicotomia si spiega facilmente se ci si appella alla forma. Gli Usa sono talmente coinvolti da non potersi permettere di passare da voltafaccia di fronte a Kiev e, soprattutto, agli alleati europei. Tuttavia, la sproporzione di potere all’interno della Nato permette a Washington di poter agire in autonomia. Con buona pace del presidente francese Macron che, tra i leader europei, sembra il più infastidito dal ruolo di gregario che questa guerra gli ha riservato. D’altronde, non sarebbe il primo ripensamento della Casa bianca in anni recenti, basti citare l’Afghanistan, anche se per gli Stati Uniti in Ucraina c’è una posta molto più alta in gioco: l’indebolimento della Russia e la riaffermazione dell’egemonia strategica sull’Unione europea.