Con i talebani al potere alle giovani è proibito frequentare gli istituti. E nascono così scuole nascoste grazie a volontari che rischiano la prigione e la vita (foto di Alessio Romenzi)

È una giornata gelida, a Kabul, quella in cui incontro Yaqub. L’appuntamento è a un distributore di benzina, appena dopo pranzo. La notte ha coperto la città di bianco, le automobili faticano ad evitare il giaccio e i mucchi di neve ai bordi delle strade. «Ci vediamo lì», mi aveva detto Yaqub, «perché devi venire con i nostri mezzi, l’autista e il traduttore che lavorano con te non possono seguirci, sarebbe troppo pericoloso per la nostra sicurezza».

Fino a sei mesi fa Yaqub lavorava per una organizzazione umanitaria europea, gestiva i fondi destinati alle scuole in città e ai progetti educativi nelle campagne e nelle aeree più remote del paese. Per loro amministrava i finanziamenti internazionali, il suo nome è su tutte le liste di documenti depositati nei ministeri che però da sei mesi sono occupati dal nuovo governo degli studenti coranici.

Quando i talebani hanno preso il potere, Yaqub ha avuto dieci giorni per decidere se andare via o restare. Il suo nome, come quello degli altri collaboratori dell’organizzazione, era sulla lista di chi poteva avere accesso all’aeroporto e quindi ai voli di evacuazione. In quei dieci giorni, mentre la folla assaltava lo scalo della capitale, Yaqub non ha avuto un’esitazione, non un dubbio. Se prima, negli anni della guerra, era fondamentale stare, sviluppare una cultura dei diritti, della convivenza e dell’inclusione, con i talebani di nuovo al potere diventava necessario restare, fare la propria parte per sostenere chi sulle liste di evacuazione non sarebbe mai finito, destinato a vivere sotto le leggi dell’Emirato Islamico.

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«Sono un uomo», si diceva per giustificare la sua decisione, «se pure i talebani si dimostreranno gli stessi degli anni Novanta, per me, rispetto alle donne che lavoravano per l’Ong, sarà più semplice avere rapporti con le istituzioni, cercare una mediazione, continuare a lavorare per la gente».

Per la gente e per i bambini come sua figlia, che ha undici anni. È qui che deve crescere, si diceva Yaqub, e lo diceva a sua moglie, che invece premeva per andare via, spaventata dal burqa, dalla cattività, dalla povertà, dal gelo e dalla disoccupazione. Poteva prevedere tutto, perché tutto era già stato, venticinque anni prima, e lei ricordava la sé bambina, il divieto di studiare e quello di uscire di casa. Quello che non poteva prevedere, però, erano le parole di sua figlia, che oggi è costretta in casa, la scuola le è preclusa e chiede a sua madre, la sera, prima di dormire: «Mi darete in sposa a uno di loro?».

Oggi le esitazioni, assenti nei giorni furenti di agosto, bussano tutte le notti al sonno di Yaqub, impedendogli di dormire. Così ogni notte, da mesi, si alza e fa di conto: quanti soldi sono rimasti? Come possiamo far entrare denaro nel paese? Come sostenere le bambine come mia figlia che non possono più studiare? Come posso farla studiare e allontanare il timore che un giorno i talebani busseranno alla nostra porta arrestandomi o chiedendola in sposa?

Quando ci incontriamo alla stazione di servizio, Yaqub si avvicina con fare gentile alle persone che lavorano con me. Non è ostilità, non è mancanza di rispetto, spiega loro, è solo prudenza.

È un uomo loquace, nei dieci chilometri che ci separano dalla destinazione non smette mai di essere gioviale, né mai di guardare lo specchietto retrovisore per sincerarsi che nessuno ci stia seguendo.

Dopo mezz’ora, e numerose deviazioni di sicurezza, parcheggia l’auto e dice: ora dobbiamo camminare un po’. Affondiamo i passi nella neve in silenzio, fino a raggiungere un cancello. Ci aspetta un uomo, ci fa entrare velocemente prima di chiuderlo di nuovo alle nostre spalle con due giri di chiave e due lucchetti.

 

La prima cosa che vedo, entrando, è una fila di scarpe da ragazza, ammucchiate fuori dalla porta.

È il primo segno di coraggio di fronte a quella casa trasformata in una scuola clandestina.

Da quando sono tornati al potere, i talebani hanno ripristinato le leggi repressive che avevano caratterizzato l’Emirato Islamico negli anni novanta. Norme che vietavano alle giovani di frequentare la scuola oltre il sesto grado di istruzione e alle donne di lavorare e recarsi fuori casa in assenza di un familiare di sesso maschile. Coerentemente alla loro visione tradizionalista della società, a settembre hanno formato un governo composto esclusivamente da militanti, vietato alle ragazze di tornare a scuola, hanno abolito il Ministero per gli Affari Femminili e ripristinato il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. «Se qualche funzionario scoprisse l’esistenza delle nostre scuole clandestine arresterebbe me e le ragazze accusandoci di sfruttamento della prostituzione», dice Yaqub.

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Dalla finestra che affaccia sul cortile arrivano le parole dell’unica donna in piedi nella stanza, parla di ossigeno e idrogeno, legami e particelle. È l’insegnante, Amina, l’uomo che ci ha aperto il cancello è suo marito, quella dove ora sta insegnando era la camera da letto di sua figlia che lei ha trasformato in un’aula, dove insegna chimica, come faceva fino ad agosto nella scuola in cui lavorava. Cioè fino a quando le imposizioni talebane le hanno impedito di tornare a fare la professoressa e hanno impedito alle sue ragazze di imparare, migliorarsi, immaginare un futuro.

Da mesi, ogni volta che sono inchiodati dalla stampa a rispondere sull’accesso femminile all’istruzione, i talebani rispondono che il divieto sia solo temporaneo e che il nuovo regime stia lavorando per creare un “ambiente sicuro” in cui le ragazze possano studiare. Ambiente sicuro significa in teoria separazione delle classi. In pratica significa prendere tempo, escogitare modi - per dirla con le parole di Heather Barr, direttrice associata della divisione per i diritti delle donne di Human Rights Watch - «per cercare di nascondere il fatto che, essenzialmente, non vogliono che le ragazze vadano a scuola. Le scuole secondarie statali erano già separate per genere, è chiaro che l’obiettivo sia un altro».

Il vero obiettivo del ritardo dei talebani non è solo la segregazione di genere. È far sparire, come stanno facendo, le donne dagli spazi pubblici.

La crisi economica è dappertutto, non c’è legna per scaldarsi, né gas per far funzionare le stufe, così, le tredici ragazze sedute a terra di fronte ad Amina, prendono appunti, taccuini alla mano, avvolte nei loro cappotti, strette le une alle altre per fare tepore.

A fine ottobre, dopo aver bussato alle porte dei ministeri e dei nuovi funzionari talebani, senza successo, Yaqub ha capito che se il loro potere aveva la stessa forma di 25 anni fa, anche la resistenza delle persone doveva adeguarsi. Così, oggi come allora, nelle case della gente stanno nascendo classi clandestine. A casa di Amina ce ne sono tre ogni settimana. Matematica, inglese e chimica.

Sono come allora, ma più subdoli di allora. Perché non hanno sciolto le Ong, né revocato i loro permessi. Lasciano le disposizioni degli anni passati intatte nella forma, ma poi, nella sostanza, non emanano i permessi per spostarsi, non mettono a disposizione mezzi e aule, non consentono ai volontari di recarsi nei villaggi. «Così non ci resta che rischiare», dice Yaqub. Rischio, pericolo, punizione. Parole distanti dall’idea di istruzione, eppure le uniche che oggi descrivono la vita, l’esposizione coraggiosa di queste ragazze che tre volte a settimana escono accompagnate dai loro padri e fratelli, accompagnate fino all’entrata del cancello di Amina, dove entrano alla spicciolata. Affinché nessuno si insospettisca, nessuno parli, nessuno informi i talebani. Sono loro, e le loro famiglie, le partigiane del nuovo Afghanistan.

Quando finisce la lezione Amina vuole parlare, e vuole farlo di fronte alle ragazze, per dare loro coraggio, perché molte di loro cominciano a soffrire di insonnia, depressione, attacchi di ansia. «Non c’è niente di più legato alla nostra religione», dice loro, «che cercare di migliorarsi e non c’è modo più nobile di migliorarsi che avere un’istruzione. Un diritto, certo ma anche un dovere, ragazze mie». Le ragazze annuiscono, piegano i loro appunti, attente a nasconderli nelle tasche prima di uscire.

Yaqub sta rischiando la vita cercando di far entrare soldi in Afghanistan per supportare le scuole clandestine, lo fa per sua figlia, che frequenta una di queste classi.

Sta rischiando anche Amina, mettendo a disposizione la sua abitazione, insegnando e accogliendo le ragazze. Sta rischiando di sparire nottetempo, come le otto attiviste arrestate nelle ultime settimane e inghiottite dai silenzi e dalle omertà dei talebani e dei loro sostenitori.

Ma è un rischio che vale la pena correre, dice di fronte alle sue studentesse, perché è più violenta la punizione dell’ignoranza.