I ricorsi di Polonia e Ungheria contro il meccanismo a tutela del Recovery sono stati respinti dalla corte di giustizia europea. Ma la Commissione deve implementare il verdetto senza accumulare ulteriori ritardi. Parla l'europarlamentare finlandese Petri Sarvamaa, negoziatore per conto dell'Eurocamera delle questioni sullo stato di diritto

La Corte di giustizia europea ha negato settimana scorsa il ricorso portato aventi da Polonia e Ungheria contro il meccanismo a tutela dei fondi del Recovery in caso di mancato rispetto dello stato di diritto in un Paese membro. In altre parole, la Commissione europea potrà non versare i fondi del Recovery se i Paesi non rispettano lo stato di diritto.

 

«La Corte precisa da un lato che il rispetto di tali valori non può essere ridotto a un obbligo cui uno Stato candidato è tenuto al fine di aderire all’Unione e dal quale potrebbe sottrarsi in seguito alla sua adesione – spiega il verdetto - Dall’altro lato, essa sottolinea che il bilancio dell’Unione è uno dei principali strumenti che consentono di concretizzare, nelle politiche e nelle azioni dell’Unione, il principio fondamentale di solidarietà tra Stati membri e che l’attuazione del principio in questione, mediante il bilancio, si basa sulla fiducia reciproca tra di essi nell’utilizzo responsabile delle risorse comuni iscritte in bilancio. Orbene, la sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione e gli interessi finanziari dell’Unione possono essere gravemente compromessi da violazioni dei principi dello Stato di diritto commesse in uno Stato membro. Invero, tali violazioni possono comportare, in particolare, l’assenza di garanzia che spese rientranti nel bilancio dell’Unione soddisfino tutte le condizioni di finanziamento previste dal diritto dell’Unione e, pertanto, rispondano agli obiettivi perseguiti dall’Unione quando essa finanzia spese di tal genere».

 

Grande la soddisfazione nel Parlamento europeo che non solo da tempo spingeva la Commissione ad applicare un regolamento già entrato in vigore il primo gennaio dell'anno scorso, ma che ha anche citato la Commissione in giudizio di fronte alla Corte di giustizia per inazione sulla questione. 

 

Ne abbiamo parlato con l'europarlamentare finlandese Petri Sarvamaa, del gruppo dei popolari, e negoziatore per conto dell'Eurocamera delle questioni sullo stato di diritto.

 

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Soddisfatto della sentenza della Corte di giustizia europea?
«La sentenza della Corte di giustizia europea era largamente attesa ed è molto chiara. È un giorno storico per l'Unione europea. E la Corte l'ha capito benissimo, accelerando in 11 mesi i tempi del verdetto, per cui ci vogliono normalmente due o tre anni, e trasmettendo il verdetto in streaming. Gli ultimi ostacoli per la condizionalità dello stato di diritto sono stati rimossi. L'aspetto politico è un'altra questione. La Commissione deve implementare il verdetto. Ma la domanda è: quanto tempo ci metterà per mettere a punto le linee guide per l'applicazione del meccanismo di ritenzione dei fondi europei a quei Paesi che non rispettano lo stato di diritto? In realtà dovrebbe essere tutto pronto da un anno ma il Consiglio ha voluto attendere e giocare con il tempo per permettere alla Commissione di avere un caso legalmente non attaccabile. Oltre 20 persone hanno lavorato sulle linee guide per un anno con il commissario Han e le lettere di notifica erano già pronte in ottobre ma non sono state inviate per l'intervento di Angela Merkel, che era una leader estremamente prudente, forse troppo prudente ma questo lo giudicherà la storia. Adesso però i nodi vengono al pettine e la Commissione deve agire, mettendo a punto le linee guida nelle prossime due o tre settimane».

 

Così arriveremmo a un paio di settimane dalle elezioni ungheresi…
«È il momento peggiore. Ma credo che ormai siamo molto in ritardo e che pagheremo un prezzo. Abbiamo aspettato troppo a lungo che Orban tornasse a rispettare lo stato di diritto e non ha funzionato. La Germania per motivi storici ed economici trascina i piedi nei confronti di Polonia e Ungheria. Ma se Ursula von der Leyen avesse agito ad ottobre non ci troveremmo ora in questa situazione. Un errore imperdonabile. Adesso ci sono le elezioni e qualsiasi cosa sarà distorta e strumentalizzata da Orban. È un po' come quando tua madre ti dice di fare una cosa, tu non la fai, accampi scuse e alla fine il farla sarà molto più doloroso ma sarai costretto. La Commissione deve comunque agire».

 

Ma non crede che comunque non sia adesso il momento migliore per annunciare il ritiro dei fondi all'Ungheria?
«Il bicchiere era pieno già l'anno scorso: qualsiasi cosa venga aggiunta comunque finirà sul pavimento e l'Europa lo dovrà asciugare. Meglio iniziare subito. Orban approfitterà di qualsiasi cosa: non credo nella pacificazione e credo che aspettare fino ad aprile peggiorerà le cose. C'è una grande similitudine tra la retorica di Putin e quella di Orban. È in corso una storica battaglia quotidiana tra gli stati democratici e quelli autoritari e non possiamo più continuare a finanziare questi ultimi, a finanziare la loro corruzione».

 

Come giudica il fatto che il parlamento europeo abbia citato in giudizio la Commissione europea per inazione?
«Capisco che abbia voluto fare qualcosa, inviare un segnale. Ma non funziona. L'ultima cosa che vogliamo è vedere le istituzioni europee che lottano tra loro: farebbero il gioco di Orban e Putin. Credo però che quando la Commissione implementerà il meccanismo il parlamento ritirerà il caso dalla Corte. È solo uno strumento per mettere pressione».

 

Abbiamo parlato di Ungheria. Ma ci sono molti più fondi in gioco per la Polonia…
«È un caso più difficile di quello ungherese in cui la corruzione e il conflitto di interessi degli oligarchi e dei sodali di Orban sono evidenti. Bisogna ricostruire un legame diretto tra il sistema giudiziario, controllato dal governo, e l'utilizzo dei fondi. A differenza dell'Ungheria, la Polonia avrebbe un vero interesse geopolitico a restare nella Ue e tre volte la quantità dei fondi ungheresi da ricevere. Forse potrebbe ancora disinnescare la bomba e distanziarsi dall’Ungheria».

 

Dunque ha ancora speranza?
«Sarà interessante vedere come reagiranno una volta che partirà il meccanismo. Certo è che sull'articolo 7, che toglie il diritto di voto in seno all'Unione e che richiede l'unanimità, si proteggono vicendevolmente. Tra un mese lo sapremo. Credo che ci sia un 60 percento di possibilità che la Polonia faccia marcia indietro. Vedremo».

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