Reportage
Sarajevo è intrappolata nel passato. E i giovani scappano via
Le divisioni etniche, la disoccupazione e la burocrazia pesano sui più giovani. Alcuni resistono e cercano di mantenere viva la città, ma la maggioranza va all’estero
La struttura del principale campus universitario di Sarajevo è un reticolato fatto di vecchi edifici, con i muri quasi interamente scrostati dagli anni. Sulla parete interna di uno di quegli stabili un po’ fatiscenti sono ritratti due occhi gialli, il dettaglio di un murale più ampio dedicato al volto di una donna sotto il cui sguardo di tempera si riunivano fino a poco tempo fa i ragazzi del Drustvo Kulturni Centar, il centro culturale-sociale di Sarajevo.
Ogni settimana si davano appuntamento lì per ripensare il proprio futuro in un Paese che, al contrario, sembra sempre più vicino ad assecondare le trame del passato. Ma l’Amministrazione cittadina ha dato recentemente avviso di demolizione della loro sede, sostenendo di dover sfruttare l’area per progetti edilizi. «Abbiamo occupato il posto pochi mesi fa, con l’obiettivo di ridare un senso ai luoghi abbandonati della città e farne un punto di ritrovo. Eravamo stanchi di rimanere in un limbo, ad aspettare che le cose accadessero», racconta Amer Cuco, 38 anni, originario di Donji Vakuf, città della Federazione croato-musulmana (Federacija BiH), una delle due entità che compone il Paese insieme alla Repubblica serba (Republika Srpska). «Anche nel 2000 alcuni giovani avevano occupato quello stesso luogo, e l’Amministrazione li aveva mandati via spiegando di dover costruire. In 21 anni, però, non è stato costruito nulla. Il comune ha ripreso a parlare di progetti edilizi non appena ci siamo insediati nella struttura abbandonata».
Il simbolo del Drustvo Kulturni Centar è una piantina stilizzata che cresce in un vaso di ceramica rosa. È l’immagine di qualcosa di nuovo in una città troppo spesso imprigionata nei racconti di ciò che fu. Un seme di freschezza che anche giovani di altri paesi, tra cui belgi, macedoni, kosovari, albanesi, hanno contribuito a piantare. Dalla pandemia, però, la gestione è nelle mani del gruppo bosniaco, a cui spetta il compito di trovare un nuovo posto. «Sentiamo il bisogno di impegnarci. Dopo la guerra, le persone qui hanno preso l’abitudine a credere che tutti i problemi saranno risolti dalla comunità internazionale. Hanno smesso di essere combattive perché danno per scontato che qualcuno da fuori verrà ad aiutare. E se non succede, diventano frustrate, si arrabbiano».
Il gruppo che si batte per la sopravvivenza del centro sociale è composto da una decina di persone soltanto, tra i 20 e i 40 anni. Rappresentano un’eccezione, perché a Sarajevo, a 30 anni dalla guerra, la maggior parte di coloro che sono cresciuti durante l’assedio o sono venuti al mondo negli anni immediatamente successivi reagisce all’immobilità della città prenotando un biglietto di sola andata per la Francia, la Germania, gli Stati Uniti.
«Non ce l’ho con chi sceglie di andarsene. Me ne sono andato anche io in Finlandia, per un breve periodo. Vorrei solo che non si incolpassero solo i politici per ciò che va male. Cambiare le cose è una responsabilità di tutti. Eppure la maggioranza delle persone preferisce non farsi coinvolgere in alcun tipo di attivismo. Molti sono abituati a pensare che la vita vera inizierà solo una volta fuori di qui», dice Amer.
I numeri di coloro che negli anni se ne sono andati dalla Bosnia-Erzegovina fotografano un fenomeno lento ma costante, a cui la politica non riesce a trovar rimedio, indebolita com’è da uno dei più complessi e frammentati sistemi di governo al mondo.
Secondo un rapporto pubblicato dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, dal 2013 al 2018 sono emigrate 184mila persone (su un totale di circa tre milioni di abitanti). Altre 269mila nella fascia d’età 18-29 stanno invece pensando di farlo. Le risposte al questionario mostrano che una delle ragioni principali per cui si cerca un futuro altrove è la disoccupazione, così diffusa che i bosniaci vi hanno dedicato un amaro motto di spirito: «Quando un politico bosniaco promette la creazione di 100mila nuovi posti di lavoro, sappiamo che la metà di questi sono in Germania».
Ma negli ultimi tempi le fila della diaspora si stanno irrobustendo per un altro motivo: il vero o presunto pericolo di un ritorno alle ostilità. Il 2021 è stato infatti l’anno in cui “la lunga tregua è finita”, come ha scritto Oslobodjenje, storico quotidiano bosniaco. Anche se le cose non vanno bene da tempo, la faglia si è riaperta l’estate scorsa, quando l’ex Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina Valentin Inzko ha approvato una legge che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica, la tristemente nota enclave in cui nel luglio del 1995 il generale serbo Ratko Mladić organizzò l’uccisione di oltre 8mila musulmani.
L’obiettivo di Inzko era quello di dare, alla fine del suo mandato, uno scossone che permettesse di uscire da uno stallo durato anni. Ma il leader del partito nazionalista serbo-bosniaco Milorad Dodik ha avuto gioco facile nel propagandare la mossa come l’ennesima prova di un complotto ai danni dei serbi. Dodik, che è anche membro della presidenza tripartita bosniaca, ha minacciato che se la legge sul genocidio non sarà ritirata, la Republika Srpska abbandonerà le istituzioni centrali. E nonostante le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, l’assemblea dell’entità a maggioranza serba sta proseguendo nella creazione di apparati autonomi tra cui esercito, amministrazione fiscale e magistratura.
«Ogni volta che c’è una crisi, i bosniaci si consolano dicendo che almeno non piovono granate sulla testa. Lo spauracchio del conflitto è usato per paralizzare ogni protesta. Dal 1995 viviamo in una specie di letargo collettivo che ai politici fa comodo», racconta Melina Ibrahimpasić, 42 anni, che ha iniziato a fare i bagagli per gli Stati Uniti dopo aver vinto alla Green Card Lottery nel 2016. «È come se la Bosnia-Erzegovina fosse un buco in mezzo all’Europa. Ci portiamo la retorica della guerra incisa nel Dna. E torna di continuo, attraverso l’arte, attraverso i film, la politica. Mi distrugge l’idea di vivere lontano da mia madre, l’idea che le accada qualcosa mentre sono via. Ma volevo vivere in un Paese libero dalla preoccupazione di un nuovo conflitto. Volevo una vita normale».
Insieme ad altri 29mila bosniaci, Melina fa parte del gruppo social Odliv Mozgova (“Fuga di cervelli”), una piattaforma su Facebook dove ci si scambia informazioni su opportunità di lavoro o di studio all’estero. Ogni giorno studenti, dottorandi, e lavoratori accomunati dalle stesse radici si confrontano su quanto di brillante ci sia oltre la dogana di casa. Al gruppo è iscritto anche Armin Niksić, 25 anni, dottorando in Biologia molecolare in Germania: «Non importa quanto ami il posto in cui sei nato. Se sei un ricercatore e il tuo Paese ha una delle percentuali più basse al mondo di spesa nello sviluppo e nella ricerca, non resta che andarsene. Rimarremo quando le condizioni saranno ai livelli dell’Unione europea. A tutto questo, ora si è aggiunta la variabile della pace compromessa. Se solo un anno fa avessi letto le notizie che stanno circolando ora, avrei pensato a un brutto scherzo».
Invece è tutto reale. Sono reali i moniti dell’attuale Alto rappresentante Christian Schmidt, che nel suo primo rapporto sul Paese ha parlato di serio rischio di secessione. E reali sono i fiori che a Banja Luka, capitale de facto della Republika Srpska, vengono portati sotto il murale di Mladić, al cui volto è annessa la scritta «l’unificazione [con la Serbia] è iniziata». Ma reale è anche la voglia di provare a cambiare le cose, come spiega Samir Beharić, 30 anni, che ha alle sue spalle molte esperienze all’estero. Amministratore della pagina Odliv Mozgova, è da anni impegnato nella società civile per superare il problema della segregazione scolastica, il cosiddetto sistema delle “due scuole sotto lo stesso tetto”, che prevede classi composte su base etnica. In Bosnia-Erzegovina sono 56 gli istituti di questo tipo, e furono creati dopo gli accordi di Dayton per non scontentare nessuno dei tre popoli costitutivi. Ma col tempo questo meccanismo è diventato uno strumento per rafforzare divisioni e retoriche nazionaliste. «Anche io ho frequentato una di quelle scuole. La mattina facevo la strada con un mio amico, ma essendo di etnie diverse entravamo da ingressi diversi, assistevamo a lezioni di storia, geografia, letteratura diverse. Poi, nel pomeriggio, giocavamo insieme a calcio».
Vivere dall’interno le incoerenze del sistema ha spinto Samir a volerle combattere. «Nella gran parte dei casi, se sei un bambino e per anni ti senti ripetere che coloro che hanno ucciso e stuprato sono in realtà gli eroi del tuo popolo, è molto difficile che crescendo tu possa cambiare idea. Il problema non sono i muri fisici degli edifici, ma i muri mentali che costruiscono nelle nuove generazioni». Nonostante, o forse a causa di tutti questi problemi, Samir vuole restare: «Ogni volta che andrò all’estero, tornerò. Fare esperienza altrove mi permette di aiutare meglio il mio Paese. C’è molto più bisogno delle mie abilità qui che in qualsiasi altro posto».