Nella notte tra 1 e 2 marzo i primi spari nelle strade della capitale bosniaca. Era l’inizio di una guerra che sarebbe costata 12 mila morti e 50 mila feriti. Tra segnali sottovalutati e spietate profezie, il racconto di chi seguì quella guerra dal campo

Fu nella notte tra il 1° e il 2 marzo del 1992 che sentii bussare insistentemente alla porta della mia camera all’hotel Holiday Inn di Sarajevo. Era Alberto Negri, inviato del Sole 24 ore, che alle mie rimostranze per il sonno interrotto replicò sarcastico: «Scusa se ti disturbo, ma qui sotto ci sarebbe una piccola guerra». Alberto era reduce da una cena in centro perché il suo giornale l’indomani non usciva, io ero tornato in albergo a scrivere un articolo per l’ultima ribattuta del mio, Il Giorno, dovevo dare conto del risultato del referendum sull’indipendenza, onorato dai croati e musulmani di Bosnia e boicottato dai serbi.

 

Scendemmo in strada e a 50 metri dall’hotel ci imbattemmo in una barricata serba, la città era completamente paralizzata, si sentivano, vicini e lontani, sporadici spari, sull’asfalto si contavano già tre morti. Benché ufficialmente venga riconosciuta la data del 6 aprile successivo, giorno del riconoscimento internazionale del Paese, per i sarajevesi, per chi c’era, l’assedio cominciò quella notte.

 

Dopo Slovenia e Croazia, il conflitto in Bosnia era largamente annunciato, il referendum il suo naturale detonatore. Per questo la stampa era confluita a Sarajevo trovando una città irresponsabilmente sicura che nulla sarebbe successo, che l’abitudine a vivere insieme, l’alta percentuale di matrimoni misti, le etnie distribuite sul territorio a macchia di leopardo e dunque inestricabili, sarebbero state il potente deterrente. Altrimenti sarebbe stata una carneficina. Infatti. Sarajevo confidava nel suo genius loci, nel suo panorama che contemplava, e contempla, moschee, chiese cattoliche, chiese ortodosse e sinagoghe l’una accanto all’altra. Nel suo essere “Gerusalemme d’Europa”, con un accostamento spesso ripetuto e che avrebbe dovuto suonare invece allarmistico, viste le sofferenze della città Santa. Tra le caratteristiche che accomunano le catastrofi una è quella che invariabilmente si ripete: chi le subisce non si accorge del pericolo incombente. È il rifiuto degli umani a immaginare il peggio.

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I segnali nefasti che si moltiplicavano erano, ad essere benevoli, sottovalutati. I ponti sul fiume Sava, al confine con la Croazia, erano stati minati. Arrivavano notizie di scontri con vittime dal Paese profondo, circolavano voci di una corsa alle armi in un luogo dove peraltro, a causa della dottrina della difesa territoriale di Tito, c’era un fucile o una pistola in ogni casa. E come non bastasse, c’erano le parole, tremende, che chiamavano la rispondenza dei fatti. All’Holiday Inn mi era sta assegnata la camera 504. Esattamente accanto, nella suite 503, c’era un ospite piuttosto ingombrante di nome Radovan Karadzic, psichiatra e mediocre poeta montenegrino inurbato a Sarajevo e diventato il leader dei serbi, che avevano nell’hotel il loro quartier generale.

 

Per motivi di sicurezza venivo perquisito dai suoi scherani ogni volta che dovevo raggiungere il mio letto. Uno di loro, incontrato in ascensore armato di kalashnikov malamente celato sotto un impermeabile chiaro, era stato così generoso da “consigliarmi” di andarmene perché di lì a breve sarebbe successo qualcosa di terribile. Karadzic, alto, massiccio, il ciuffo brizzolato sporgente sopra la fronte, era generoso di interviste con chiunque incontrasse nella hall. I suoi proclami suonavano così feroci da sembrare ridicoli. «L’Irlanda del Nord è un luogo di villeggiatura a confronto della Bosnia indipendente». «Faremo come quando fu divisa l’India dal Pakistan». «Senza la nostra volontà nessuna indipendenza, altrimenti sarà il Libano, sarà il Nagorno Karabak. Sarà il caos, bruceranno i Balcani e forse anche l’Europa». «Io sono ostaggio del popolo serbo, non posso far altro che assecondarne la volontà. Noi della direzione saremmo più moderati, ma...». Col senno di poi, era la descrizione esatta del suo disegno criminale.

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Il 29 febbraio, primo giorno del referendum, andai a Mostar. Accanto all’antico e famoso ponte incontrai Becio, il giullare vestito in abiti tradizionali che divertiva i turisti per attirarli nel suo negozio di souvenir. Non aveva alcuna voglia di giocare il suo personaggio. Preparò un caffè turco e mi invitò a degustarlo sulla spalla del ponte. All’improvviso si rabbuiò mi guardò fisso negli occhi e mi disse: «Bevilo lentamente, è l’ultimo caffè di pace» (quando un anno dopo tornai a Mostar a guerra ormai esplosa Becio era una larva d’uomo rovinato dall’alcol e che sarebbe morto di lì a poco). Era il vaticinio di un semplice cittadino a cui bastava annusare l’aria per non sbagliare pronostico.

 

Il primo marzo, secondo giorno di referendum, la quiete di una Sarajevo insolitamente calda di sole fu squassata da alcuni spari esplosi da una Golf bianca contro il corteo in centro di un matrimonio ortodosso. Venne ucciso Nikola Gardovic, il padre dello sposo, serbo, furono feriti due invitati. I testimoni oculari indicarono Ramiz Delalic detto Celo, un criminale comune musulmano, come il responsabile dell’omicidio, diventerà comandante della Nona brigata, verrà processato molti anni dopo ma non si arriverà a sentenza perché a sua volta verrà ammazzato da un killer sotto casa nel 2007. Lui ed altri delinquenti saranno tra i più attivi nella difesa della capitale con le loro fedeli bande.

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Ma Sarajevo, quel primo marzo, aveva solo voglia di arrivare a sera, dimenticare l’omicidio, proclamare l’indipendenza. Mentre nei ristoranti si festeggiava, il presidente Alija Izetbegovic organizzò una conferenza stampa nella sede del Parlamento per annunciare con enfasi la vittoria del sì con il 64 per cento dei voti per poi quasi accasciarsi sul tavolo e annunciare con voce flebile: «Ci sono gli uomini di Arkan (Zeljko Raznjatovic detto Arkan, il campione serbo della pulizia etnica, n.d.r.) che stanno arrivando per circondare la città». Chiesi la parola per una domanda e dissi: «Perché non manda qualcuno a bloccarli, presidente?». La risposta sconfortante e impotente: «Perché non ho nessuno da mandare loro contro».

 

Dunque le barricate. E l’indomani, lunedì, la Sarajevo spettrale senza nessuno nelle strade anche per l’appello del sindaco Muhamed Kresevljakovic a non uscire. Il martedì sera, sul canale Yu-tel andò in onda la più allucinante trattativa mai vista per evitare la guerra civile. In studio il giornalista Goran Milic, su una linea telefonica Izetbegovic sull’altra Karadzic a rimpallarsi responsabilità, tra gli accorati appelli del conduttore e la finta disponibilità dei due leader.

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Come in una doccia scozzese, fino al 6 aprile la capitale fu aperta e chiusa a capriccio dei serbi che ormai si erano attestati con le batterie di artiglieria anche sui monti circostanti. Quindi la manifestazione pacifica contro la guerra funestata dagli spari dei cecchini serbi attestati all’Holiday che colpirono a morte la studentessa diciannovenne Suada Dilberovic. La fuga di Karadzic e dei suoi a Pale, borgo di montagna sopra Sarajevo da dove avrebbe condotto la guerra assieme al suo comandante militare Ratko Mladic. I vani tentativi di chiedere aiuto alla comunità internazionale per rompere un assedio medievale, la strenua resistenza, le innumerevoli stragi, tra cui quella più emblematica del 5 febbraio 1994, quando un proiettile di mortaio da 120 millimetri colpì il mercato, 68 morti e 140 feriti. Sull’intero viale d’ingresso alla città e sulle alture più strategiche erano disseminati dei cecchini serbi che “lavoravano” secondo un preciso tariffario. Mille marchi tedeschi per ogni bambino colpito perché il panico che si diffonde è più forte, 700 marchi per le donne incinta, 500 per le donne, 300 per gli uomini.

 

Nel primo inverno furono tagliati pressoché tutti gli alberi per potersi riscaldare. Finiti quelli finirono nel fuoco intere biblioteche di libri. Oltre al gas mancava anche la luce. L’acqua bisognava andare a prenderla nei pozzi approfittando del cambio di turno dei cecchini. Gli scarni aiuti alimentari obbligavano gli abitanti a cucinare pasta e ortiche fino a quando fu scavato un tunnel sotto la pista dell’aeroporto da dove entrava il cibo. Sarajevo fu assediata per 1461 giorni, dal primo marzo 1992 al 29 febbraio 1996. Il bilancio finale fu di circa 12mila morti e 50mila feriti. Iniziò un lungo dopoguerra ancora in corso, trent’anni dopo, che ha profondamente mutato il panorama urbano e quello umano della città. Sono sorte numerose moschee e centri culturali finanziati dai paesi del Golfo. È rimasto un quarto dei serbi che la abitavano prima della guerra, la metà dei croati, se ne sono andati ebrei e rom. I musulmani sono cresciuti di numero ma i sarajevesi di un tempo sono stati sostituiti dai “papci”, musulmani inurbati dalle aree rurali. I giovani (come spiega Linda Caglioni nell’articolo che segue) aspirano solo a fuggire all’estero per trovare chance di lavoro qui negate. Spopolano i partiti etnici e riemergono pericolose mappe per completare l’opera iniziata nel 1992 e assegnare l’Erzegovina alla Croazia, l’est del Paese alla Serbia, mentre i musulmani si ritroverebbero chiusi in una riserva indiana che contempla poco più di quanto si vede da un minareto di Sarajevo: sarebbe la sicura premessa per una ripresa del conflitto.

 

Karadzic evocava all’epoca l’islamizzazione della Repubblica come causa della guerra: non lo era, ne è diventata l’effetto. Per fortuna un’islamizzazione non ancora completata se resiste comunque uno spirito cosmopolita impossibile da sradicare del tutto. Nel ciclo a fisarmonica della sua esistenza, a fronte dei tentativi di renderla monoetnica, Sarajevo è sempre riuscita a rimontare verso la sua vocazione: è stata costruita su una faglia delle civiltà per essere ponte.