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Per Olena Pareniuk, ricercatrice all’Accademia nazionale delle scienze dell’Ucraina, il più importante ente governativo di ricerca, e Kateryna Shavanova, che ha un dottorato in Biologia, la consapevolezza del rischio è per prima cosa una questione linguistica. Parlano di Chornobyl, sostituendo la o alla e, perché è questa la grafia ucraina per nominare la centrale che 36 anni fa fu teatro di un incidente nucleare devastante.
Secondo loro la presenza russa a Chornobyl, confermata dalle autorità del luogo il 24 febbraio, e a Zaporizhzhia, i primi giorni di marzo, nel breve termine non rappresenta un problema. Ma potrebbe diventarlo se la Russia dovesse continuare a violare gli accordi internazionali di cui fa parte.
In particolare la Convenzione internazionale per la soppressione di atti di terrorismo nucleare e quella sulla protezione fisica delle materie nucleari. All’articolo due il primo testo recita: «Commette reato chiunque utilizzi o danneggi un impianto nucleare in modo da liberare o rischiare di liberare materie radioattive». Il sette dell’altro documento dice qualcosa di simile: «È reato un atto diretto contro un impianto nucleare, o volto ad alterarne il funzionamento per provocare intenzionalmente la morte o lesioni gravi di altre persone o danni sostanziali a beni o all’ambiente per l’esposizione a radiazioni o per la fuoriuscita di sostanze radioattive».
Secondo Pareniuk e Shavanova le responsabilità di Vladimir Putin sono chiare, meno lo è la risposta internazionale: «Invece che sanzionare pesantemente l’unico mandante, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) si è limitata a fare appelli».
A Chornobyl, spiegano, è a rischio la sicurezza stessa dell’impianto, costituita da un complicato sistema di matriosche. La prima è il vecchio “sarcofago”, una copertura costruita subito dopo l’esplosione del 26 aprile 1986, per limitare la contaminazione radioattiva dell’ambiente. La seconda è il “New safe confinement” (Nsc), un enorme arco di acciaio ultimato nel 2016 e costruito con il contributo di 40 Paesi e organizzazioni. Lo scopo del Nsc è isolare il reattore danneggiato, il numero quattro, per altri cento anni e al contempo consentirne i lavori di smantellamento. Il nuovo arco è progettato per resistere agli agenti esterni, tornado, tempeste di neve, persino la caduta di un velivolo leggero. Ma, dicono le scienziate, non per fronteggiare bombardamenti e spari. «È come se un frullatore da cucina non avesse un sistema per evitare che qualcuno ci infili dentro le dita. Qualsiasi persona dotata di raziocinio lo farebbe? No». Il rischio, avvertono, è che le esplosioni possano distruggere il nuovo arco isolante e disperdere la polvere radioattiva ancora presente nell’impianto e contenuta nel vecchio sarcofago. «Credevamo che il solo nome di Chornobyl evocasse il disastro accaduto. A quanto pare, non è così».
Già alcuni giorni fa, il 9 e il 14 marzo, le forze russe hanno scollegato dalla rete energetica la centrale di Chornobyl. Le informazioni successive al blackout sono frammentarie, fonti ucraine hanno sollevato il rischio di rilascio di materiale radioattivo se l'impianto non dovesse essere in grado di raffreddare parte del combustibile nucleare esaurito. Mentre quelle internazionali, su tutte Iaea, hanno assicurato che la temperatura delle piscine in cui è conservato il combustibile esaurito non salirà oltre la soglia giusta, 20 gradi. E alla preoccupazione dei primi giorni riguardo lo stress cui i dipendenti erano sottoposti dopo la presa russa, Pareniuk e Shavanova sollevano anche altre problematicità. «Il passaggio di veicoli militari pesanti nella zona di esclusione, quella che si estende per 30 chilometri attorno alla centrale ed è disabitata da dopo l’incidente del 1986, potrebbe aver smosso il terreno e provocato l’aumento di radiazioni di cui si è parlato nei giorni scorsi. La polvere radioattiva potrebbe venir trasportata all’esterno della zona dalle ruote dei mezzi e inalata dai militari, rimanendo nei loro polmoni e nelle mucose».
Ma il pericolo più grande sarebbe per gli ucraini: «I radionuclidi, cioè nuclidi radioattivi, potrebbero migrare nella catena alimentare, finendo nel fiume Prypiat e Dnipro. Anche il serbatoio di acqua sul fiume Dnipro stesso, che fornisce acqua potabile a milioni di ucraini, è a rischio di contaminazione. Per evitarlo, bisognerebbe usare filtri e ricorrere a nuovi metodi di purificazione. Altrimenti, potrebbero venire inquinati anche i terreni agricoli». Un effetto a catena da evitare a tutti i costi.
La situazione non è la stessa a Zaporizhzhia, la centrale più grande d’Europa dotata di reattori più sicuri di quelli di Chornobyl. L’acqua che fa ruotare le turbine per produrre elettricità è isolata da quella in prossimità del combustibile. Non è dunque contaminata con le radiazioni e se dovesse fuoriuscire in caso di incidente non contaminerebbe l’ambiente circostante. Ma la situazione potrebbe cambiare se il sito dovesse diventare bersaglio dei colpi di artiglieria. «I reattori possono reggere alle alte temperature e alla pressione, ma non sono progettati per resistere ai missili o agli attacchi aerei. Tutta l’infrastruttura circostante è vulnerabile e a questo si aggiunge la possibilità di errore umano, provocata dalla pressione psicologica a cui sono sottoposti i dipendenti. È difficile concentrarsi sul proprio lavoro, con una pistola puntata alla testa». In caso di esplosione, la gravità dell’incidente dipenderebbe dalla direzione del vento. «Nei combattimenti recenti, soffiava verso sud-ovest. In direzione della Crimea, di Melitopol, Rostov, la Turchia, il Mar Nero. E il Mar Nero è una propaggine del Mediterraneo, il pericolo potrebbe danneggiare molti altri paesi».
Pareniuk e Shavanova non usano toni allarmisti, ma restano in guardia per invitare la comunità internazionale a tenere gli occhi fissi e aperti sulle mosse di Putin. Perché in caso di attacco alle centrali nucleari non sarebbe così facile porvi rimedio. All’epoca di Chornobyl l’Unione sovietica mise in campo tantissimi liquidatori, impegnati sul campo per arginare le conseguenze del disastro. «Oggi e dopo 22 giorni di guerra, il nostro Paese non avrebbe le risorse per farlo».