Reportage
Famiglie spezzate e vita nei sotterranei: la nuova terribile normalità per chi resiste in Ucraina
Gli uomini combattono al fronte. Tre milioni e duecentomila, tra donne, bambini e anziani sono in viaggio verso i confini ovest o si rifugiano nel sottosuolo di città devastate. È l’esodo più rapido dai tempi della seconda guerra mondiale
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Dal 24 febbraio la vita degli ucraini è cambiata per sempre. Non c’è più la vita com’era, c’è il prima e il dopo le bombe che alle cinque di mattina di un mese fa hanno svegliato Kiev, Kharkiv, Kramatorsk, Mykolaiv dando inizio all’invasione russa del Paese. Da allora, velocemente, tutto è mutato. Le città si sono svuotate, nel momento in cui scriviamo tre milioni e duecentomila persone hanno lasciato l’Ucraina, nell’esodo più rapido e completo che l’Europa abbia visto dalla seconda guerra mondiale, le strade sono militarizzate, la capitale e le principali aree metropolitane subiscono quotidiani bombardamenti su installazioni militari e aree civili. Sono stati colpiti aeroporti, scuole, asili, ospedali. Il numero delle vittime civili non è chiaro, così come non è chiaro quante persone siano morte nelle aree sotto assedio, come Mariupol, la città più colpita dalla guerra, la città nell’Ucraina meridionale da cui non è possibile uscire e in cui i russi non lasciano entrare gli aiuti umanitari.
In Ucraina è stata ripristinata la legge marziale, gli uomini non possono lasciare il Paese per la generale chiamata alle armi del presidente Zelensky, le donne e i bambini, le ragazze e gli anziani, invece, continuano a raggiungere i confini, quello polacco, ungherese, moldavo, romeno, cercando una via di fuga in un’altra nazione europea. È cambiato tutto, tutto è stato ripensato, con una rapidità che non ha precedenti. Sono ripensate le famiglie, private degli uomini che sono al fronte, così come sono ripensate le città, che all’esterno vivono di guerra, mentre sottoterra hanno ricostruito una quotidianità degli scantinati, le mura che proteggono dalle bombe. Sono ripensati gli edifici, l’architettura. Tutto è vuoto e barricato: teatri, abitazioni, musei, scuole, monumenti. Oppure, laddove colpito dai razzi e dai colpi di artiglieria, tutto è maceria.
Nelle prime ore dell’invasione, Olixey, che nella vita di prima era un insegnante di inglese, si è unito alle Unità di difesa territoriale. Ha chiesto a sua moglie di lasciare il Paese, ma lei non vuole andarsene. Hanno una figlia di otto anni che per giorni ha chiesto cosa stesse accadendo intorno a lei, perché la scuola fosse chiusa, perché le sirene svegliavano tutti ogni notte costringendoli a scendere in garage, perché la loro città, Dnipro, si stesse riempiendo di sacchi di sabbia bianchi e così tanti soldati. Le bugie che si dicono ai bambini hanno un tempo, e Olixey e sua moglie hanno sostenuto il peso dell’illusione che si deve ai più piccoli in tempo di guerra per un paio di settimane. Poi, quando sono cominciati ad arrivare i primi pullman di sfollati da Zaporizhia e Kharkiv, quando le truppe russe si sono avvicinate alla centrale nucleare di Energodar, la più grande d’Europa, quando Olixey è stato chiamato per addestrarsi e prepararsi a combattere, hanno deciso che la bambina, almeno lei, dovesse lasciare il Paese. L’hanno affidata ai nonni e hanno accompagnato tutti alla stazione per prendere un treno in direzione di Leopoli, che come altre città dell’ovest e piccoli villaggi nei Carpazi, sono invasi da persone che hanno abbandonato le loro case.
Era così la stazione di Dnipro, come quella di Kharkiv, come quella di Kiev, ogni giorno dall’inizio della guerra. Migliaia di persone ammassate ad attendere un treno di evacuazione che vada verso ovest. Quando il treno arriva sul binario la massa preme per entrare e affollare i vagoni da venti persone che ne conterranno, alla fine, sessanta. Madri, mogli, figlie e figli, attaccati ai finestrini fino all’ultimo momento utile per poggiare una mano sul vetro, dall’altra parte la mano dei padri, mariti, figli che restano al fronte. Sono gli arrivederci della guerra. Tutti, da una parte e dall’altra del vetro, sperano che non si trasformino in addii. Eppure l’Ucraina piange i suoi ragazzi e i suoi uomini, funerali sobri, spesso silenziosi. Spesso celebrati in assenza del corpo dei caduti.
Nastia prima della guerra era una giornalista, viveva a Kharkiv con il suo compagno e la figlia. Ora vive in metropolitana da due settimane, la vita scossa come le notti. Non dorme più, le occhiaie le scavano il viso. Si muove a scatti, come chi non sa gestire un trauma - il rumore delle bombe di notte - come chi non si rassegna alla paura, costante, di non sopravvivere.
Trascorre le giornate a leggere notizie sul telefono, stesa su un materasso vicino a una presa di corrente sotto la metropolitana. Spera, dice, di aprire una pagina di giornale, un giorno, e leggere che la guerra è finita, che è stato dichiarato un cessate il fuoco, che possano lei e le migliaia come lei, tornare a casa e continuare a vivere la propria vita normale. Poi si interrompe e trattiene le lacrime, perché sa che di normale, qualora anche la guerra finisse domani, la loro vita non avrà più nulla. Metà della popolazione di Kharkiv è fuggita, così come metà della popolazione della capitale, Kiev, e del porto marittimo di Odessa, che si stanno preparando per assedi brutali che sembrano ormai inevitabili.
Solo a metà febbraio questi scenari sembravano fantascienza, per i cittadini come per il presidente Volodymyr Zelensky che rassicurava il suo Paese sul fatto che la Russia non avrebbe lanciato un’invasione su vasta scala.
Oggi il presidente si mostra ogni giorno. È nella capitale, a fianco della sua gente. Compatta le energie, tiene unito lo spirito di una nazione, cercando di cementare la tenacia che i bombardamenti russi vogliono minare, colpendo le aree civili. Si mostra nei palazzi del potere, a dimostrare che ancora sono sotto il controllo del governo, si mostra accanto ai feriti per celebrarne lo sforzo, si mostra per parlare con i leader occidentali, chiedendo loro da giorni una no fly zone, chiedendo loro: cosa fareste se questi morti fossero i vostri, se fossero vostre le strade e le case civili, sventrate dai crateri delle bombe?
Da quando è cominciata la sua vita sotterranea in metropolitana, Nastia non è più uscita. Non sa come sia ridotta la sua città, non ha visto piazza della Libertà colpita, la stazione di polizia poco distante data alle fiamme, le vie del centro lastricate di macerie, i quartieri residenziali a nord bombardati, le code per il cibo e per l’acqua, le folle di civili tremanti in fila per ore davanti alle farmacie, sotto la neve, la scuola di lingue distrutta. Non ha visto e non sa se è pronta a vedere, perché la guerra totale è accecante e lei, ormai, ha quasi più terrore di vederne gli effetti che di pensarsi a vivere come un topo in metropolitana. Non sa se sia più difficile scappare dalla guerra o dalle sue conseguenze.
È questo, soprattutto, che è accaduto all’Ucraina, in un mese, è cambiata l’anima delle persone.
Oggi Nastia, così come Olixey, una giornalista e un insegnante, sono pronti a morire e sono pronti a uccidere, non hanno un’esitazione su questo. È il momento della resistenza e dell’aiuto incondizionato, questo. Si combatte senza fare domande e senza fare domande ci si aiuta.
Non importa, dicono, accanto a chi combatti, siamo tutti sulla stessa linea del fronte, con il medesimo obiettivo, cacciare l’esercito russo, l’esercito invasore.
Così come non conta a chi appartenga la mano che chiede aiuto. Si aiuta, come si combatte, senza fare domande. Sono due modi di combattere, due modi - anche - per cercare di sopravvivere all’insensatezza di questa guerra.