Professione reporter
L’importanza dei giornalisti di guerra, alla ricerca della verità contro tutte le propagande
La fabbrica dei falsi funziona a pieno regime al servizio della grancassa mediatica di tutte le fazioni coinvolte nel conflitto. L’unico antidoto sono i reporter che rischiano in prima persona. E non si accontentano delle veline
Da questa settimana Lorenzo Tondo, giornalista del Guardian, inizia la sua collaborazione con L’Espresso
Esserci per informare. Andare, restare, guardare, verificare e poi scrivere. In tempo di guerra, come in pace, conta ciò che puoi controllare, anche in condizioni difficili. Riparandosi dall’alto, da dove piovono le bombe, e dai tiri ad altezza uomo, micidiali come un proiettile, devastanti se deflagrano sui media e si propagano a dismisura. Piombo e fake news, il primo disintegra corpi e territori, le seconde distorcono la percezione di tutto, ammantano di propaganda la narrazione di un conflitto che rivela che l’uso della comunicazione orientata e drogata è merce di largo consumo tra gli opposti schieramenti.
Mstyslav Chernov e Evgeniy Maloletka sono i due giornalisti dell’Associated Press che per tre settimane hanno vissuto nell’inferno di Mariupol, la porta del Mar Nero e il fronte più caldo della guerra in Ucraina. Situata nell’oblast di Donetsk e capoluogo dell’omonimo distretto, la città è ancora oggi teatro di una delle più gravi catastrofi umanitarie degli ultimi decenni, le cui proporzioni saranno quantificabili solo quando, finiti i bombardamenti, sarà possibile contare i cadaveri seppelliti tra la macerie. Da inizio marzo la città è sotto assedio dei russi, accerchiata dai carri armati che avanzano, ora dopo ora, un colpo di cannone alla volta, radendo al suolo tutto ciò che ostacola il loro cammino, mentre gli aerei dall’alto sganciano morte e distruzione sulla popolazione civile.
Quasi tutto quello che oggi sappiamo su Mariupol, incluse le foto, i video, e le centinaia di testimonianze, lo dobbiamo a Chernov e Maloletka, unici due giornalisti che hanno scelto di rimanere in città per raccontare la sua devastazione. È grazie al loro racconto, alle loro foto e ai video, se oggi sappiamo con certezza che i russi hanno bombardato l’ospedale per la maternità di Mariupol il 9 marzo. Sono stati loro a farci vedere, con la forza delle immagini e delle testimonianze dirette, le decine di fosse comuni disseminate nelle periferie della città. Per questo, i due cronisti, erano finiti nel mirino dei russi che li volevano catturare per poi costringerli a recitare davanti a una telecamera che tutto quello che avevano filmato e visto era falso.
È grazie soprattutto al lavoro di Chernov e Maloletka, se noi cronisti impegnati a raccontare il conflitto in Ucraina, abbiamo potuto riportare in tutto il mondo le tragedie di Mariupol che la propaganda russa voleva nascondere.
Il caso Mariupol è decisamente l’esempio più emblematico delle mille difficoltà con le quali i reporter devono confrontarsi ogni giorno, ogni ora, in questo conflitto, in cui il dovere di un’informazione giusta, vera e imparziale, si scontra quotidianamente con il circo della propaganda, certamente russa - volta a etichettare come fake news le notizie della stampa sul conflitto - ma anche ucraina che ogni giorno, utilizzando a volte anch’essa prove e notizie indimostrabili, tenta di enfatizzare la debolezza dell’invasore russo.
Una delle prime cose che fanno i russi a Mariupol è quella di bombardare le torri delle telecomunicazioni della città. Chernov e Maloletka raccontano che per trovare un briciolo di connessione internet dovevano recarsi fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue. Stavano lì ore a caricare una foto alla volta. I due giornalisti ne sono convinti: Mariupol, dicono, cade in poche ore per l’assenza di comunicazione. «Senza immagini di edifici demoliti e bambini morti o feriti», dicono, «le forze russe potevano fare quello che volevano». Diranno Chernov e Maloletka che mai, prima di allora, avevano capito quanto importante fosse in quel momento rompere il silenzio.
Ho incontrato in quei giorni alcuni ragazzi russi, nati e cresciuti in Ucraina. Da settimane avevano smesso di parlare con i loro parenti e amici in Russia, perché questi ultimi continuano a credere che la guerra in Ucraina sia l’ennesima bufala dell’Occidente. Mi raccontavano della loro frustrazione, della rabbia nel tentativo di convincere i loro parenti a Mosca e San Pietroburgo che i russi hanno ucciso già oltre mille civili e oltre cento bambini. «Pensano che l’Ucraina si stia bombardando da sola per mettere in cattiva luce la Russia», mi ha detto un ragazzo di Kharkiv. «Dicono che il nostro presidente Zelensky è sotto l’effetto di stupefacenti». Molti di loro non vogliono più sentire parlare dei loro parenti russi. Hanno chiuso con loro, definitivamente. La guerra fa anche questo.
In quei giorni mi trovavo a Leopoli, nell’ovest dell’Ucraina, distante, almeno per il momento, dai carri carri armati russi e dal fronte caldo della guerra, ma a portata di missili lanciati dal Mar Nero, alcuni dei quali esplosi a una manciata di chilometri dal nostro hotel.
Nel loro isolamento, Chernov e Maloletka non potevano sapere che i russi hanno messo in campo una vera e propria campagna di disinformazione per screditare il loro lavoro. Il Cremlino tira addirittura in ballo l’ambasciata russa a Londra, che ha pubblicato due tweet definendo false le foto di Ap e affermando che la donna incinta fosse un’attrice. La verità è che la propaganda e la campagna di disinformazione russa è così forte che le autorità ucraine temono che rischi di influenzare la stessa opinione pubblica ucraina.
Senza i dispacci di Chernov e Maloletka Mariupol, tagliata fuori dalle telecomunicazioni, diventa un fantasma. L’unico modo per capire cosa sta realmente accadendo in città è tentare di parlare con i superstiti dell’assedio, con quelle poche migliaia che sono riuscite a fuggire a Berdiansk o Zaporizhzhia. La seconda opzione, decisamente più attraente, perché non richiede alcuno sforzo, e quindi al passo con tempi supersonici dell’informazione live, è quella di sposare le notizie rilasciate dalle autorità ucraine.
Mi sono venute in mente le parole del leggendario corrispondente di guerra Ryszard Kapuściński. Diceva che il reporter in zona di guerra è una missione che non può essere portata a termine senza una comprensione e un’empatia verso il genere umano. Bisogna sentirsi membri della grande famiglia di quelli che che Frantz Fanon definiva i «dannati della terra», gli oppressi, donne e uomini relegati da altri uomini ad una condizione di minorità, che nella guerra in Ucraina coincidono con gli oltre tre milioni di rifugiati e 6 milioni di sfollati interni, vittime dei bombardamenti russi.
Ma questo mestiere impone anche di scrollarsi di dosso gli orrori e la tragedie e riportare i fatti in maniera lucida e imparziale. Nessuno ha detto che sia un’impresa semplice. Soprattutto quando la televisione ucraina trasmette un repertorio di canzoni patriottiche, alternate a notizie che assicurano la perdita di terreno dei russi e la vittoria degli ucraini che sembra ormai dietro l’angolo.
Non è così. Non può essere così se ogni giorno decine di migliaia di rifugiati provenienti da Kiev, Charkiv e Iprin affollano la stazione dei treni di Leopoli, gli hotspot di Przemysl, in Polonia, i caselli doganali di Medyka. Sottrarsi alle trappole della propaganda russa è semplice. Sottrarsi alla glorificazione della resistenza ucraina, le cui autorità si propongono come fonte esclusiva della verità, è decisamente più complesso.
Cadere in questa trappola significa fare un torto a milioni di persone che ogni giorno sono costrette a lasciare il Paese perché quello che era rimasto delle loro vite non esiste più. Non c’è ombra di dubbio che l’Ucraina sia la vittima di un’invasione criminale, disumana, brutale e malvagia da parte dei russi. Ma un reporter non può far finta di non vedere le centinaia di uomini ucraini a cui il governo ha vietato di lasciare il Paese, introducendo la legge marziale.
Ci sono centinaia di migliaia di ragazzini tra loro e molti non hanno alcun legame di sangue con l’Ucraina. Giovani dai quali ci si aspetta che il rispetto passi dall’impugnare un’arma. Non vogliono combattere, non vogliono uccidere. Al momento non sono costretti a farlo, ma questa legge che impedisce loro di lasciare il Paese li sta già condannando a morte. Si tratta di argomenti impopolari durante una guerra, soprattutto se rischiano di mettere in cattiva luce l’oppresso. Ma noi cronisti non abbiamo viaggiato fin qui per fingere di non vederli o per paura di essere cacciati dal fronte. O perché in una guerra in cui il mondo sostiene l’Ucraina, questi argomenti rischiano di essere impopolari.
È stato in quei giorni, nel faticoso tentativo di capire quante persone fossero ancora intrappolate tra le macerie del teatro, delle scuole, dei rifugi, di Mariupol, dopo che, una volta evacuati Chernov e Maloletka, la città era rimasta senza testimoni, è stato in quei giorni che il mio interprete mi ha riferito la notizia di un’anziana ucraina che avrebbe avvelenato otto soldati russi servendo loro una torta allo zinco. La leggenda viene diffusa da un video postato dall’attuale consigliere del ministro ucraino Anton Gerashenko, in cui si ascolta una presunta conversazione intercettata tra una ragazza e un soldato russo, che lamentandosi della presunta fame patita dalle truppe russe, confida alla donna di come una “babushka”, avesse fatto fuori otto militari offrendo loro, appunto, una torta avvelenata.
Nel momento in cui l’interprete mi raccontava la notizia, del tutto inverificabile dal punto di vista giornalistico, questa aveva già fatto il giro del mondo.