Reportage
Sul treno per Varsavia in fuga dalle bombe: «A Kiev i muri tremavano. Mio marito è rimasto a combattere»
Il biglietto per l’Europa costa un viaggio di 48 ore su convogli lentissimi, pieni di donne e bambini diretti al confine polacco. Ne sono già arrivati cinquecentomila
Arrivano affannati. Corrono anche se ormai la guerra è dietro un filo di confini tracciati da mano umana. Arrivano trascinando le valigie riempite fino all’ultimo.
La stazione di Pretzemel, paese polacco al confine con l’Ucraina, è diventata in pochi giorni il luogo di arrivo di chi è riuscito a scappare. Le voci si accavallano, il rumore è continuo. Sono tutti alla ricerca di una casa. L’ansia dei visi ti soffoca. Ed è così che a distanza di 24 ore ritrovi seduto sullo stesso posto un uomo anziano che guarda fisso di fronte a sé e che la casa ancora non l’ha trovata, perché non ha un amico pronto a ospitarlo o perché una delle tante associazioni, che si sono attivate in queste giorni, non è riuscita ad aiutarlo. E lui aspetta, mentre la guerra continua ad arrivare sul volto sfinito di persone che non dormono da ore.
Anna ha un cappello di lana, guardandola con lo zaino in spalla da campeggio diresti che stia andando in gita. Ma Anna ti sputa in faccia tutta la precarietà della razionalità terrena: «Due mesi fa non avrei mai immaginato questo. Sono partita da Kiev alle nove del mattino, ci ho messo 48 ore. Sono partita perché le mura della casa tremavano. Non dormo da quattro giorni e non mangio da quattro giorni perché lo stomaco si è chiuso». Una donna trascina tre bambini biondissimi, una piagnucola di sonno e si stropiccia con la mano il naso. Si ferma, vuole parlare e vuole solo dire: «Mio marito è rimasto per combattere».
Il treno arriva, uno dei tanti che partono lentissimi e che vanno da Pretzemel verso Varsavia, così lenti che ti viene da pensare che lo facciano per non rischiare di risucchiare le persone che si ammassano ai portelloni.
Spingono, si passano i bambini, tirano le valigie dentro con forza, urlano e corrono verso un altro portellone quando lo vedono meno affollato. La polizia smista, chiama, fa salire prima donne e bambini. Sventolano il biglietto: una strisciata bianca con scritte nere. Lo fanno nonostante ormai siano in Europa e in un Paese della Nato. Ucraini, ma anche chi in quel Paese aveva trovato rifugio: afghani, siriani, congolesi, c’è anche chi arriva dal Ruanda. «Ero a Kiev quando hanno bombardato, per me è stato più difficile arrivare qui perché la polizia mi controllava i documenti molte volte per sapere se fossi in regola. Per attraversare il confine è stato difficilissimo, ci guardavano uno a uno». L’accoglienza polacca che si sgretola e ti ricorda il muro con la Bielorussia, dove i profughi di altri Paesi muoiono al gelo nella speranza che la cattolica Polonia tenda loro la mano. Non guerra ma questioni di confini anch’essa. Confini che ammazzano.
L’Unhcr parla già di 500mila persone fuggite dal Paese. C’è chi invece è rimasto e adesso attende che tutto finisca. Al confine di Medika le auto arrivano. Alcuni attendono al varco, una coperta sulle spalle e osservano le auto che passano nella speranza che siano i propri cari. E quando l’attimo si avvera, vedi i corpi diventare dei fari di avvistamento. Le braccia si muovono frenetiche per poi posarsi su chi è riuscito a mettersi in salvo. Un bambino si affaccia dal furgone nero, tira fuori lo stemma di Superman e guarda tutti soddisfatto. Il papà l’ha incoraggiato nell’impresa di attraversare il Paese spiegandogli che lui è un supereroe e può tutto. C’è chi arriva e chi tenta di entrare. Hanno tutti sui vent’anni, arrivano da altri Paesi dell’Europa, sulle mani tengono sacchetti di plastica. Vogliono andare a combattere insieme al popolo ucraino. La follia della guerra che fa leva nel coraggio. I combattenti partono dal confine ma anche dalla stazione dei bus. Crocevia di contraddizioni. Da una parte loro, dall’altra gente proveniente da tutta l’Europa per dare ai profughi un passaggio. Hanno pezzi di cartone con i nomi delle città scritti sopra. C’è chi arriva da Israele e con la kippah in testa cerca fratelli o sorelle.
Una brodaglia passa di mano in mano, il freddo gela le dita e l’odore dentro la stazione spezza l’appetito. Una giovane si guarda intorno, controlla il telefono: «È due giorni che non sento i miei genitori, non so come sia la situazione, non capisco se non riescano a ricaricare il cellulare o se gli sia successo qualcosa. Forse c’è stato un blackout». In città il blackout non c’è stato, ma nessuno dice nulla. Ognuno viene lasciato con la propria idea di speranza.
Fuori una catasta di vestiti, molti sono per i bambini. Scarpe grandi come un pugno, alla spicciolata arrivano e prendono quel che serve. In tanti portano pagnotte di pane, minestra appena cucinata. C’è chi ha la pettorina gialla e aiuta a capire quale treno prendere o che mezzo di fortuna utilizzare per raggiungere le città. La polizia chiama i nomi delle città a gran voce, forma gruppetti di sconosciuti e li mette insieme. Calcolo matematico di posti per svuotare la stazione che immediatamente si riempie. Ed è così che basta uscire da Pretzemel per scoprire che alcuni dei distributori vicino alle strade principali sono rimasti senza benzina: «Arriverà tra tre giorni», dice il gestore e alza le braccia al cielo storcendo la bocca, come a dire che qui la guerra non c’è ma la si sente tutta. C’è una Polonia che guarda la televisione senza sosta. Basta entrare in un bar di qualche piccola cittadina. Di fronte a loro un cimitero di bottiglie di birra, il telegiornale a volume altissimo. C’è il silenzio della paura mentre guardano il telefono. Mangiano ma nessuno parla se non per sbuffate mentre passano le immagini dei bombardamenti.
È una Polonia che teme la terza guerra mondiale.
Proseguendo verso Varsavia c’è chi ha allestito nelle stazioni di servizio dei piccoli ristori. Trovi caffè, cioccolatini e panini farciti. Troviamo anche Lyana, scappata insieme ai due figli e alla nuora: «Ho lasciato un’Ucraina determinata a combattere. Sono scioccata e non riesco a spiegarti cosa ho pensato quando ho visto Putin pronunciare quelle parole in diretta televisiva, sempre che lo sia stata, una diretta». Le chiedo dove si trovi il marito: «È rimasto come tutti i mariti a proteggere la città». E per un attimo non capisci più qual è il nostro tempo, quello che ci hanno insegnato a studiare per evitare che si ripetesse. È tutto questo mentre una colonna di camion dell’esercito ci passa davanti trasportando non si sa cosa verso l’Ucraina. È il tempo, un tempo che doveva essersi fermato, ma che sembra essersi solo ripetuto.