Reportage
Intrappolati in Ucraina e costretti a combattere: «Non è la mia patria, non è la mia guerra»
Scienziati, ricercatori, studenti di università tedesche e inglesi, andati in soccorso dei familiari, obbligati a rimanere per il decreto di Zelensky. E a prendere le armi. E la legge marziale blocca anche le donne transgender «Mi hanno controllato le mani, il seno, il collo per vedere se avevo un pomo d’Adamo» (Foto di Alessio Mamo)
Quando lo scorso 24 febbraio, alle 5,30 del mattino, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky siglò il decreto che introduceva la legge marziale, Alexander non aveva la benché minima idea delle conseguenze che quella firma avrebbe avuto sul suo futuro. Erano passate poche ore dall’invasione russa nel Paese e la scelta del governo di ridurre alcuni dei diritti normalmente garantiti ai cittadini gli sembrò un atto quasi dovuto, ma soprattutto ragionevole, viste le circostanze. Solo più tardi, quando le autorità del Paese specificarono alcuni dei nuovi divieti, Alexander fu assalito da un improvviso senso di panico e impotenza. Il ministro degli interni ucraino aveva infatti precisato che, da adesso in poi, ogni cittadino avrebbe potuto imbracciare un’arma, e che, da quel momento, gli uomini in salute tra i 18 e i 60 anni non avrebbero potuto lasciare il Paese o spostarsi in altre regioni.
Nato in Bielorussia da genitori slovacchi e cresciuto tra la Polonia e la Germania, Alexander quella notte non chiuse occhio quando fu informato dai militari che il decreto era stato esteso anche a chi, come lui, non aveva alcun legame di sangue con l’Ucraina. Quello che contava era la cittadinanza che Alexander aveva ottenuto qualche anno prima dopo essersi trasferito nel Paese con moglie e figlio per motivi di lavoro. Allo scoppio della guerra si trovava a Dnipro, ed è lì che adesso le autorità gli chiedevano di restare e, se necessario, di uccidere.
«Questa non è la mia guerra», dice. «Questa non è la mia patria. Non sono un codardo. Non voglio sentirmi un codardo. Voglio essere libero di poter decidere della mia vita».
Trincerati nei casolari di campagna, fuggiti a ovest, lontani dai colpi di cannone dell’artiglieria russa, nascosti nei bagagliai dei furgoni che attraversano i confini, c’è un esercito di padri, mariti, fratelli ucraini che non vuole combattere. Vogliono portare in salvo all’estero i propri figli e rimanere lì al loro fianco. Molti hanno appena compiuto 18 anni. Tra di loro ci sono scienziati, ricercatori, studenti delle università tedesche e inglesi, entrati in Ucraina per aiutare i propri famigliari a scappare. Ma una volta nel Paese, sono stati obbligati a rimanere. Nella rete della legge marziale sono finite anche centinaia di donne transgender, che sono uomini solo sulla carta e per questo anche loro impossibilitate a lasciare il Paese. Sono gli intrappolati di una guerra che non vogliono combattere con la violenza. Dilaniati dai sensi di colpa, accusati di vigliaccheria, ma determinati a non accettare che il rispetto nei loro confronti passi dall’imbracciare un’arma. La legge, al momento, non li costringe ad arruolarsi, ma potenzialmente, obbligandoli a restare, rischia di condannarli a morte nelle città messe a ferro e fuoco dai russi.
«Sono arrivato a Kiev pochi giorni prima dell’inizio dell’invasione per recuperare mia moglie e portarla in Germania», dice a L’Espresso Maksym, un giovane ricercatore ucraino che lavorava in un istituto di ricerca tedesco. «Non abbiamo fatto in tempo ad uscire prima dello scoppio della guerra. Pensavo che ci avrebbero lasciato andare visto che ho un certificato di residenza permanente in Germania e un contratto a tempo indeterminato. Ma no, mi sbagliavo. La verità è che le autorità stanno deliberatamente trattenendo gli uomini nel Paese. E ora anch’io sono bloccato qui. Conosco moltissimi uomini ucraini che lavoravano in Europa e non possono entrare In Ucraina per mettere in salvo i propri genitori perché temono di rimanere bloccati qui».
Quantificare il numero degli uomini che stanno tentando di fuggire è impossibile. In una guerra in cui la “piccola’’ Ucraina è rimasta sola a fronteggiare la seconda potenza mondiale, non c’è spazio per il tema impopolare della diserzione. Ma che non si tratti di poche decine di persone lo suggerisce un intervento repentino delle Nazioni Unite che, a pochi giorni dall’inizio della guerra, ha parlato di «numerose denunce di cittadini respinti dai soldati ucraini» alle frontiere con i Paesi europei confinanti e ha chiesto a Kiev di mostrare «un approccio compassionevole nei confronti degli uomini che vogliono lasciare l’Ucraina».
«Riconosciamo che gli Stati hanno il diritto all’autodifesa sia ai sensi della Carta delle Nazioni Unite che del diritto internazionale consuetudinario e che essi possono anche richiedere ai propri cittadini di svolgere il servizio militare in determinati criteri e condizioni, in linea con il diritto internazionale», ha affermato Matthew Saltmarsh, portavoce dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. «Allo stesso tempo però riteniamo che quelle attuali siano delle circostanze molto difficili e vorremmo sollecitare un approccio compassionevole e umano nei confronti di coloro che stanno tentando di fuggire, alla ricerca di sicurezza e protezione», ha proseguito Saltmarsh.
Dall’Ucraina non è arrivata nessuna replica. A metà marzo però è comparsa una foto. Quella di un uomo nascosto in un box di giocattoli e peluche che lui stesso aveva ricavato tra i sedili posteriori di una Renault grigia, sulla quale viaggiavano la moglie, la suocera e un neonato. Erano ad un passo dal raggiungere la Moldavia, ma sono stati bloccati e perquisiti dai militari alla frontiera. Sono stati gli stessi soldati a scattare le foto e a diffonderle, prima tra le autorità e poi tra la stampa internazionale. Agli occhi del governo, esporre al pubblico disprezzo l’immagine di un padre nascosto tra i giocattoli del proprio figlio in fuga dal fronte, mentre altri uomini combattono e muoiono nelle trincee di Mariupol e Kiev, doveva essere sembrato il monito perfetto, a metà tra la punizione della gogna pubblica e l’avvertimento ai cittadini maschi a non farsi venire strane idee in futuro.
Secondo alcuni testimoni, le code chilometriche di rifugiati ucraini al confine con la Polonia, all’inizio della guerra, erano causate proprio dall’intransigenza dei poliziotti di frontiera determinati a ispezionare ogni singolo centimetro delle auto che lasciavano il Paese per fermare la fuga di ogni individuo di sesso maschile in età di leva.
«Questo è inaccettabile. L’Ucraina è uno stato democratico. So che molti stanno tentando di scappare pagando gli smuggler. Ho sentito che alcuni uomini sono riusciti a raggiungere la Polonia ma la maggior parte è stata fermata o arrestata. E non sappiamo che tipo di trattamento le autorità riserveranno loro. Tecnicamente potrebbero ucciderli, perché andarsene è visto come un tradimento», dice Alexander.
«Considerare queste persone disertori e traditori, degni della corte marziale, è un abominio», dice Andrea Cozzo, ricercatore di Lingua e letteratura greca presso l’università di Palermo dove conduce un Laboratorio di teoria e pratica della nonviolenza. «Altrimenti, in senso inverso, potremmo chiamare machisti quelli che, fermi a una cultura eroico-ottocentesca, identificano la difesa con il ricorso alle armi, laddove invece ci sarebbero state alternative di nonviolenza attiva di massa. Che le persone, maschi o femmine (o trans), possano, con sofferenza, allontanarsi dalla loro terra è semplicemente un “diritto umano” e andrebbe loro garantito».
Ivan, 30 anni, ha lasciato Kharkiv nei primi giorni dei bombardamenti. Oggi vive in una città ad ovest, lontana migliaia di chilometri dall’artiglieria russa. Cerca di uscire di casa il meno possibile, attento a stare alla larga dai checkpoint ucraini. Se i militari scoprono che ha lasciato la sua regione, rischia di finire in un centro d’addestramento.
«Vietare agli uomini di lasciare il Paese è una decisione medievale», dice Ivan. «Non ha alcun senso nel 2022. Ci sono molte donne che hanno scelto di restare in Ucraina, facendo volontariato, così come tanti altri uomini. Alcune mie amiche dicono che rimarranno fino a quando sarà possibile, ma che se le cose dovessero mettersi male, andranno in Polonia. Ecco, io questo non posso farlo. E mi spaventa. Perché se hai una vagina puoi metterti in salvo e se hai un pene devi invece soccombere?».
Nella trappola della legge marziale molte donne transgender ucraine hanno anche subito abusi e perquisizioni da parte dei militari alla frontiera.
«Mi hanno spogliata e palpeggiata ovunque», dice Judis, 24 anni, artista transgender di Svatove, nella regione di Luhansk, controllata dai separatisti sostenuti da Mosca, e fuggita a Kiev prima dell’arrivo delle truppe russe. «Mi guardavano come si stessero chiedendo “cosa sei?”, come se fossi una specie di animale o qualcosa del genere».
Secondo la International lesbian, gay, bisexual, trans and intersex association, l’Ucraina è al 39° posto su 49 Paesi europei per il trattamento complessivo delle persone Lgbtq+. I matrimoni gay non sono consentiti nel Paese, la Chiesa cristiano-ortodossa considera l’omosessualità un peccato e non esistono leggi antidiscriminatorie a tutela delle persone Lgbtq+.
Nonostante ciò, a partire dal 2017, le persone trans in Ucraina sono legalmente riconosciute, anche se si tratta di un processo estenuante che prevede una lunga osservazione psichiatrica e un faticoso processo burocratico. Così, quando è scoppiata la guerra, migliaia di trans ucraine non avevano ottenuto ancora un documento che attestasse il loro nuovo genere, rimanendo di fatto bloccate nel Paese. Anche se, a detta di attivisti e testimoni, molte persone trans, nonostante il loro status legale di donne, sarebbero state maltrattate e respinte al confine.
Al momento dell’invasione russa, molti dei documenti in possesso degli ucraini in fuga erano scaduti, e impossibili da rinnovare con l’esercito nemico alle porte. Per questo motivo, le autorità ucraine, venendo incontro all’esigenza di centinaia di migliaia di donne, anziani e bambini di lasciare il Paese, stabilì che qualsiasi documento che attestasse l’identità di un individuo fosse valido per oltrepassare il confine. Judis, però, nonostante avesse un certificato di nascita che attestava il suo genere femminile, ha raccontato di essere stata respinta dai militari. «Mi hanno persino tirato i capelli per verificare che non fosse una parrucca», dice. «Poi, uno dei militari ha tagliato corto: sei un ragazzo, torna indietro e vai in guerra».
Alice, 24, donna transgender originaria di Brovary, un villaggio nei pressi di Kiev, ha raccontato di come i militari, insospettiti dall’aspetto fisico delle donne trans, non fossero interessati ai documenti, ma a qualsiasi segno di mascolinità sul loro corpo. «Ci hanno portato in un edificio vicino al valico di frontiera», racconta Alice. «C’erano tre agenti nella stanza. Ci hanno detto di toglierci le giacche. Ci hanno controllato le mani, le braccia, mi hanno controllato il collo per vedere se avevo un pomo d’Adamo. Mi hanno toccato il seno. Dopo averci esaminate, le guardie di frontiera hanno infine deliberato che eravamo uomini. Abbiamo cercato di spiegare la nostra situazione, ma a loro non importava. Decine di donne trans sono riuscite a passare solo perché avevano un aspetto più femminile rispetto al mio, segno che assumevano ormoni da più tempo rispetto a me».
Bernard Vaernes, attivista e membro di Safebow, un’organizzazione che prova a trarre in salvo dai conflitti le vittime di transfobia, racconta che molte donne trans temono che gli invasori russi riserveranno loro un trattamento persino peggiore rispetto a quello a cui già sono sottoposti i componenti della comunità Lgbtqi+ in Russia. Per le persone trans e i gay, il Cremilino non è solo il nemico che ha invaso la loro terra. Esso rappresenta l’incarnazione mondiale della transfobia, la nemesi dei diritti civili per cui hanno lottato per decenni. Nel 2013 la Russia ha introdotto una legge sulla «propaganda gay», che vieta qualsiasi promozione dei diritti dei gay. Il presidente Vladimir Putin è arrivato addirittura a definire la fluidità di genere come «un crimine contro l’umanità».
Pochi giorni prima dell’invasione, l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Bathsheba Nell Crocker, aveva avvertito in una lettera di un presunto piano della Russia di voler estendere le sue politiche di violazione dei diritti umani nelle aree dell’Ucraina occupate dalle sue truppe, e in particolare ai membri della comunità Lgbtqi+.
Judis però non resterà a guardare. Non rimarrà chiusa in un bunker ad aspettare che i russi si portino via la sua libertà. «Voglio viaggiare per il mondo», dice. «Voglio comprare un camper e dormire sotto le stelle. E non rimarrò in silenzio. Proverò ancora ad attraversare il confine perché partire è un mio diritto. È un mio diritto continuare a vivere».