Bielorussi per l’Ucraina. Il pensiero unico di Minsk, interpretato dalle posizioni pro Putin del presidente Alexander Lukashenko, ha delle crepe. Se aumenta il timore di un possibile ingresso della Bielorussia nella guerra, a sostegno di Vladimir Putin, gli oppositori al regime dell’ultimo dittatore d’Europa si organizzano per andare a combattere nelle fila dell’esercito ucraino. Un modo per resistere a quella che chiamano «russificazione», spiegano.
«Per liberare la terra da Putin. Perché salvare Kiev significa offrire una via di uscita anche alla Bielorussia», racconta Eugen che ha 21 anni, i capelli biondi e le fossette sulle guance quando sorride. Non ha mai combattuto prima. Mai preso un’arma in mano. Eppure sostiene di non avere paura perché crede che «tutti siano al mondo per un motivo». E lui ha trovato il suo. Lo argomenta con un modo dire che in Italia suonerebbe all’incirca come il nostro «ciò che non ammazza ingrassa».
La madre non sa che sta per partire. Lui spiega che continuerà a scriverle in chat dal fronte, «così non si accorgerà di nulla». Se la informasse la metterebbe in pericolo: «La polizia è venuta a casa a cercarmi un paio di volte da quando sono fuggito», ma non vede l’ora di tornare dalla sua grande famiglia, festeggiare con i parenti e gli amici quando, finalmente, anche la Bielorussia sarà libera, «europea». Solo pochi conoscenti che ha incontrato all’università di Varsavia sanno che andrà a combattere, dice che non hanno detto nulla per fargli cambiare idea.
Kamil, istruttore di combattimento, prende dalla sua macchina gli strumenti per un corso di sopravvivenza dei combattenti
Eugen è di Minsk, la capitale, ma vive in Polonia da un paio d’anni. È scappato dopo aver partecipato alle proteste contro Lukashenko nel 2020, conosciute come “la rivoluzione delle ciabatte”, quando migliaia di manifestanti sono scesi in piazza contro la pessima gestione del Covid-19, la corruzione, le politiche repressive del dittatore che proprio negli stessi giorni, invece, è stato rieletto presidente per il sesto mandato consecutivo dal 1994, con elezioni né eque né democratiche. Con il sostegno di Putin.
Eugen è stato arrestato e torturato nelle prigioni e poi è fuggito. Mostra un video in cui respira a fatica. È in ginocchio accanto a un ragazzo steso sul pavimento che non parla. Ha i vestiti strappati e le mani bloccate dietro la schiena mentre viene interrogato. Scorre veloce la gallery del cellulare per trovare le fotografie in cui si vede il suo corpo nudo segnato da lividi e ferite enormi. «Mi hanno fatto questo. Anche se non ho mai usato un’arma so che cosa significa violenza. Ecco perché la guerra non mi fa paura». Spegne una sigaretta. Slaccia gli anfibi neri. Si mette a dormire per qualche ora, per la partenza c’è ancora tempo.
Nell’edificio della Belarusian House di Varsavia, ci sono un’altra ventina di uomini, per la maggior parte giovanissimi, alcuni over 50, pronti per andare a combattere con l’esercito ucraino. Fanno parte del centro dei volontari bielorussi, un’organizzazione senza un vero nome, coordinata da Pavel, un ragazzo di 24 anni che ha già combattuto nella guerra del Donbass contro i russi, tra il 2016 e il 2017. Da allora non può tornare a casa, in Bielorussia, e così ha iniziato le operazioni di coordinamento dei volontari che sostengono la resistenza Ucraina, lo scorso 28 febbraio formalmente, «in realtà già il 24», confida. «Non mi immaginavo che sarebbe scoppiata la guerra. Non appena le truppe di Putin sono entrate, gli amici di Kiev mi hanno chiesto aiuto, così mi sono dato da fare. Anche io vorrei combattere, ma sono più utile qui». Attraverso un gruppo Telegram, Pavel gestisce le adesioni dei combattenti, le donazioni di cibo e d’equipaggiamento per i volontari, controlla i documenti di chi aderisce «perché non vogliamo che arrivino sostenitori di Lukashenko o spie».
Pavel è un indipendente ma è convinto che «Ucraina libera significhi anche libertà per la Bielorussia». Parla poco l’inglese. Ad aiutarlo con la lingua e per la logistica c’è Aliaksandra, anche lei è una ventiquattrenne che non può più tornare a casa per la sua manifesta opposizione al regime. Lavora per la Belarusian House, l’Ong che aiuta le persone che fuggono dalla repressione di Lukashenko, ma non sa se il supporto che l’organizzazione dà ai combattenti sia ufficioso o ufficiale: «Lo facciamo e basta, lo sanno tutti».
Associazione Belarusian House: i combattenti bielorussi, prima di partire per il fronte, seguono un corso di sopravvivenza e di primo soccorso
Per molti la Belarusian House di Varsavia è «l’ambasciata alternativa», un centro di incontro e aggregazione per la comunità bielorussa espatriata in Polonia, che cresce all’aumentare dell’autoritarismo del regime. Si stima che oggi i bielorussi in Polonia siano più di 150 mila, non solo dissidenti ma anche giovani che vogliono studiare e realizzarsi. Per farlo sono costretti a spostarsi negli Stati vicini. Da oltre vent’anni Lukashenko governa il Paese con il pugno di ferro e distrugge il sistema economico, dalle proteste del 2020 la situazione è ulteriormente peggiorata. Sempre più persone scappano.
«Sono già centinaia i bielorussi che sono partiti per l’Ucraina da quando è scoppiata la guerra», spiega Pavel. Niente numeri, però: «Non diamogli vantaggio». Racconta che sono oppositori di Lukashenko che arrivano a Varsavia da tutto il mondo: «Norvegia, Olanda, Finlandia, Francia, Germania, perfino Giappone» per unirsi al battaglione Kastus Kalinouski che prende il nome dal rivoluzionario, giornalista e scrittore bielorusso che nel gennaio del 1963 ha guidato la rivolta contro l’impero russo in Polonia e Lituania. Hanno quasi tutti le tute mimetiche o indossano larghe felpe scure con il cappuccio, gli scarponi pesanti, lo scaldacollo che si alza per coprire il volto e poca voglia di chiacchierare.
Silenzi lunghi segnano l’attesa della partenza. Interrotti dalle grida di incitamento che qualcuno ogni tanto lancia. Quelli accanto rispondono a tono: «Putin è fottuto», urlano in bielorusso. Per Andrej, 40 anni, che aveva fondato un partito politico di opposizione a Lukashenko, andare a combattere è un modo per redimere il suo Paese. Passeggia nervosamente nel cortile dell’edificio, sotto la vecchia bandiera bianca e rossa della Bielorussia indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che ricopre la facciata principale dell’ingresso alla Belarusian House.
Per chi si oppone all’autorità del regime è un simbolo di resistenza. È spaventato «ma come tutti», aggiunge. «La Bielorussia è coinvolta nell’invasione russa dell’Ucraina e noi dobbiamo fare qualcosa. Se un cittadino non è responsabile per il suo Stato, allora chi dovrebbe esserlo?», si chiede. Dimitri ha 27 anni e non dice una parola da ore. Non alza lo sguardo dal pavimento mentre risponde con tono flebile: «Io vado perché non posso più stare a vedere quello che stanno facendo contro gli ucraini. Anche il mio Paese in questo momento è occupato dalle truppe russe, se vincono in Ucraina neppure noi potremmo tornare a casa, invece io voglio tanto tornare».
Varsavia, Polonia: Associazione Belarusian House. Kamil, istruttore di combattimento e titolare di una Shooting Academy per la difesa personale mentre mostra ai combattenti come prestare assistenza sanitaria di primo soccorso in situazioni di conflitto
Maxim conversa con un compagno. Ha 22 anni e lavora come ingegnere elettronico. Non si scopre mai il volto. «Potrò mostrare il mio viso solo dopo che avrò distrutto il regime di Lukashenko. Una volta finito in Ucraina, anche grazie alle armi e alla formazione che avremo acquisito sul campo, libereremo la Bielorussia». È convinto, come molti degli altri che stanno per partire, che si tratti di un’unica lotta: quella della neutralizzazione di Putin. Con l’obiettivo di salvare l’Europa. «La cultura, il pensiero, l’arte, la tutela dei diritti della persona che i russi vorrebbero annientare per allargare sempre di più la sfera di influenza».
Poco lontano, in disparte, seduti sull’altalena, ci si sono Ihar, 21 anni, e Hanna di 20, che si sono spostati a Kiev cinque mesi fa. «Ci siamo trasferiti in Ucraina per studiare dopo essere scappati dal regime di Lukashenko, è la nostra seconda casa. Quello che sta succedendo è ingiusto», dice Hanna con gli occhi che si riempiono di lacrime, mentre con le dita attorciglia nervosamente una piccola treccia che si è fatta nei capelli. Anche loro, come Eugen, sono stati arrestati e torturati durante le proteste del 2020, prima di scappare. Si abbracciano e salutano un milione di volte perché non sanno quando potranno vedersi di nuovo. Ihar pensa di tornare non appena vinceranno, Hanna è convinta che si sentiranno tutti i giorni.
Nessuno sa con precisione cosa dovrà succedere ma tutti si fidano. «La rete di coordinamento funziona benissimo», spiega Pavel. Fa buio. L’ultimo pasto prima di accendere i motori delle auto è il “draniki”, frittelle di patate con salsa allo yogurt che conoscono tutti in Bielorussia. Le mangiano appoggiando i contenitori bianchi in polistirolo agli oggetti d’arredo dentro l’edificio o sulle ginocchia. In silenzio, ognuno per conto proprio. Si conoscono da qualche ora, prima non si erano mai visti. Eugen prepara le sigarette che saranno utili, per chi fuma, durante le cinque ore di viaggio che ci vogliono dalla capitale polacca per arrivare al confine, con le auto cariche di borsoni e zaini. Una all’inizio non parte ma dopo un paio di tentativi a spinta si accede. Alla frontiera si dividono: alcuni rimangono in macchina, altri salgono sui treni o sui bus, per raggiungere prima Lviv, poi Kiev. Una volta entrati in Ucraina riceveranno le armi e l’equipaggiamento necessario per combattere, poi inizieranno l’addestramento.
«È forte il training! Abbiamo imparato le tattiche di combattimento e a scavare le trincee», scrive Eugen in chat. Dopo qualche giorno in Ucraina sembra essersi già ambientato ma all’inizio aveva avuto paura. «Dal treno vedo i razzi che volano», aveva detto poche ore dopo la partenza.
«Questa mattina per la prima la prima volta ho sentito l’allarme che annuncia i bombardamenti. Sono andato nel panico. Stavo facendo la doccia quando ha iniziato a suonare. Non sapevo che fare, mi batteva forte il cuore. Ho preso solo le mutande e sono uscito per raggiungere i miei amici. Ma tutti gli altri non facevano nulla. Poi ho capito che il suono delle sirene è normale qui, adesso è routine anche per me». Eugen, Andrej, Ihar, Dimitri, Maxim e gli altri uomini che sono partiti da Varsavia lo scorso 21 marzo sono arrivati in Ucraina e si sono uniti al battaglione Kastus Kalinouski che sabato scorso ha prestato il giuramento di fedeltà a Kiev in lingua bielorussa ed è stato formalmente ammesso nell’esercito. Sulle loro uniformi i simboli delle due nazioni, Bielorussia e Ucraina, sono cuciti accanto.