«Abbiamo paura. L’Europa non ha fatto nulla. Le nostre vite sono nelle nostre mani». Ecco cosa vuol dire vivere sotto il regime di Orban per la comunità arcobaleno

Bastonati sui testicoli e sulla schiena, poi presi a calci in faccia, nello stomaco e alle costole. Siamo a Budapest, capitale di una nazione che ha dichiarato guerra alla comunità Lgbt. Le vittime: due ragazzi che passeggiavano in pieno centro, di giorno, sotto lo sguardo dei passanti, mano nella mano. Uno dei due finisce in rianimazione. L’aggressione viene registrata il giorno dopo l’approvazione da parte del governo di Viktor Orban di una legge che di fatto paragona l’omosessualità alla pedofilia. È il mix esplosivo che ha trasformato la nazione in una polveriera. «Da allora sono aumentate le violenze, insieme all’ansia e la paura dentro la comunità. Un chiodo fisso quello del governo: colpire verbalmente e legalmente le persone Lgbt» dice Áron Demeter, portavoce di Amnesty International Ungheria. Così le vite della comunità arcobaleno rimangono sospese. Ma c’è chi fa rete, chi resiste, chi dissente alla propaganda del governo.

Il referendum che si è tenuto domenica scorsa, in concomitanza con la rielezione di Orban per la quarta volta come primo ministro dell’Ungheria, è fallito. Le associazioni per i diritti umani l’hanno definito «anti-Lgbt». «Fidesz, il partito di maggioranza al governo, l’ha indetto perché voleva dimostrare che la società civile ungherese fosse favorevole alla legge entrata in vigore nel giugno 2021», spiega Dorottya Redai della Labrisz Lesbian Association, una rete lesbo-femminista attiva dal 1999 a Budapest. «Da allora, in Ungheria, è vietato condividere qualsiasi contenuto a proposito di omosessualità o sul cambio di sesso in contesti pubblici come scuole, ai minori di 18 anni». Per Redai il fatto che un milione e 600 mila persone abbiano votato scheda nulla al referendum dimostra che Orban non ha il supporto della popolazione e ha vinto le elezioni soltanto perché è stato in grado di costruire un sistema così autocratico da non lasciare spazio né ad altri, né alla libertà di pensiero. «La società civile ha capito che la lotta per i diritti delle persone è una battaglia per la democrazia. Chi si oppone a Fidesz ci supporta, nonostante l’impegno del governo nell’accrescere l’odio, l’omotransfobia».

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Per le associazioni che tutelano i diritti umani il fatto che il referendum non abbia raggiunto il quorum è stato un successo notevole. Grazie alle loro compagne di informazione, un gran numero di persone si è mobilitato contro quello che era stato presentato come un passo necessario per proteggere i bambini, con lo scopo di sostenere la retorica conservatrice sulla salvaguardia dei valori familiari e promuovere la propaganda anti-Lgbt. Il referendum di domenica scorsa avrebbe dovuto dimostrare il sostegno della società civile ungherese alla legge che impedisce di fare formazione ai minori sull’orientamento sessuale, invece, ha dimostrato che la democrazia funziona ancora. Nonostante questo, però, è poco probabile che il governo cambi la sua posizione sulle questioni Lgbt, che dal 2010 è diventata sempre più netta e discriminatoria. Orban ha prima cambiato la definizione di matrimonio nella Costituzione definendolo come un'unione eterosessuale, poi ha proibito l'adozione di un figlio per coppie stesso sesso e nel 2020 ha messo fine al riconoscimento legale delle persone transgender e intersessuali.

Infine, nel giugno del 2021, ha approvato il Child Protection Act,«la legge che impedisce di fare formazione ai minori sull’orientamento sessuale che, purtroppo, resterà in vigore, nonostante il fallimento del referendum. Questo è un dramma soprattutto per le giovani generazioni che cresceranno che senza conoscere la comunità arcobaleno, pensando che da questa ci si debba proteggere». Redai è anche la coordinatrice del libro Fairyland is for Everyone, una raccolta di storie in cui un principe può amarne un altro, Biancaneve ha la pelle scura, i protagonisti possono essere persone diversamente abili. Racconti scritti con l’obiettivo di insegnare ai lettori, adulti e bambini, come essere rispettosi nei confronti del prossimo, senza pregiudizi.

Il libro pubblicato nel 2020 oggi può essere venduto solo con una fascetta che indica che il volume contiene comportamenti non in linea con i ruoli di genere tradizionali, non può essere esposto in vetrina, mostrato in pubblico vicino a scuole e chiese. «Tutto questo, però, non ha diminuito la sua popolarità» spiega. «Non ho mai sentito di persone punite per non aver rispettato il Child Protection Act. Il suo obiettivo non è quello di sanzionare ma di far crescere il sentimento d’odio nei confronti delle persone Lgbt. Infatti, da quando è entrato in vigore è aumentato il numero dei suicidi e di chi abusa di droga tra i giovani. E sono cresciute le aggressioni».

Sommersa da violenze e privata dei diritti è la comunità trans. Lo racconta Anna Bakonyi, portavoce di Transvanilla, unica realtà che si occupa di persone transgender e non binarie nel paese: «Dal maggio 2020 è stato tolto il riconoscimento legale alle persone trans». La modifica della legge ha sconvolto la vita della comunità. L'Ungheria che non consente più alle persone transgender o intersessuali di cambiare legalmente il proprio genere prevede che tutta la documentazione debba corrispondere al sesso assegnato alla nascita. Una comunità ai margini che con documenti non conformi al proprio aspetto non riesce a trovare lavoro o accedere ai servizi fondamentali senza subire discriminazioni o attacchi: «Fino a poco tempo fa dovevamo mostrare nei locali la certificazione di vaccinazione al Covid. Anche quello costringeva le persone a un costante coming out. È indubbiamente un’aggressione. Ma rendere così visibile una persona che approda al genere sentito come proprio, la espone anche a violenze fisiche reali. Le persone trans vengono aggredite ma non denunciano. Qui nessuno si fida delle forze dell’ordine».

Anche per Anna l’esito del referendum è una vittoria, «ma sappiamo che Orban rovescerà il risultato a suo favore. Lo ha già fatto in passato con i migranti». Anche in quel caso il referendum non aveva raggiunto il quorum: era il 2016, chiedeva ai cittadini se accettare o meno la quota di richiedenti asilo assegnata dall’Unione Europea all’Ungheria. Il governo aveva dato un’interpretazione opposta del risultato del referendum spiegando che il Parlamento avrebbe comunque rifiutato la quota di migranti perché solo «il 50 per cento dei votanti avrebbe fatto la differenza».

Gli attivisti Lgbt pensano che potrebbe fare lo stesso anche questa volta. E continuare il processo di repressione totale sul fronte dei diritti e della libertà d’espressione. Lydia Gall, senior researcher di Human Rights Watch si affida all’Unione Europea: «La situazione fa parte della più generale repressione dello Stato di diritto e del ritiro delle istituzioni democratiche che il governo porta avanti da anni. L’Unione ha un ruolo chiave da svolgere e dovrebbe rispondere alle costanti violazioni di Orban. Le procedure di infrazione sono uno strumento importante da utilizzare e, infatti, la presidente Von der Leyen, ha annunciato che la Commissione farà pressioni contro l’Ungheria». Una speranza che non fa breccia nella rete di attivisti che sul campo da anni vedono i propri diritti restringersi e le loro vite minacciate: «Abbiamo paura, ci guardiamo le spalle costantemente. Ma nell’intervento dell’Unione ci speriamo poco. Non hanno fatto finora nulla. Le nostre vite sono nelle nostre mani».