Reportage
La guerra dei Talebani contro le donne: «Vogliono controllare le nostre idee coprendoci il corpo»
Sono attiviste, studentesse, giovani afghane pronte a ribellarsi al decreto che le costringe a mostrare solo gli occhi. mantenere la loro libertà: alzeranno la voce e combatteranno per diritti, libertà e indipendenza»
«Il mio nome? Usalo pure, bisogna avere coraggio per affrontare un periodo così buio». Occhiali rettangolari sotto un velo marrone come il vestito, Masouda Khazan è una scrittrice. «Ho pubblicato una decina di libri, molti di satira politica e sociale, altri di racconti per bambini e poesie. A volte li ho stampati a mie spese e distribuiti nelle librerie o nei negozi come questo».
Siamo in un’edicola storica sul lungofiume di Kabul, nel cuore del bazar principale, tra negozi di tessuti, biancheria, abiti per donne. L’edicola è gestita da Sardar Hashemi, un signore dai baffi ben curati che da questo negozietto di pochi metri quadrati, zeppo di materiali da cancelleria, libri e riviste, ha visto passare decenni di storia afghana. «Nel primo Emirato sono finito in prigione tre volte. Vendevo dei libri che venivano dall’Iran. Me li hanno bruciati. Ora vorrebbero farmi chiudere, ma ho protestato: da qui non mi cacciano». Per Sardar Hashemi, che fino a pochi mesi fa vendeva anche quotidiani in lingua inglese, il problema dell’Afghanistan è sempre lo stesso: «i nostri leader non amano veramente il popolo».
Seduta su uno sgabello di plastica, Khazan mostra un libro di satira che ha pubblicato quasi dieci anni fa. «Altri tempi», ricorda con un sospiro. Sulla copertina, una donna in burqa (qui chiamato chadori) con tacchi a spillo. Nella mano sinistra ha un telefono cellulare, nella destra una bombola del gas. «L’idea era di mettere insieme modernità e tradizione, ma anche di far arrivare l’idea che, sotto il chadori, le donne afghane hanno idee, volontà e forza. Insomma, sono diverse da quel che potrebbero apparire».
Sarà forse per provare a controllarne idee, volontà e forza che due settimane fa il ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha reso pubblico un nuovo decreto che riguarda le donne: porta la firma dell’Amir al-Mumineen, la “guida dei fedeli” Haibatullah Akhundzada e le obbliga coprirsi anche il volto, a eccezione degli occhi. «Una misura per preservare la dignità delle donne», ci ha spiegato il portavoce del ministero, Mohammad Sadiq Aqif: «È diventato illegale non indossare l’hijab, ora. Per hijab intendiamo qualunque vestito che non sia troppo stretto, che non lasci vedere le forme. Va bene il burqa, il chadori, un lungo telo che copra il corpo, anche un vestito fatto in casa».
Un decreto contro la libertà delle donne, replica Masouda Khazan, che racconta come gli spazi di libertà, già precari durante la Repubblica islamica, l’architettura istituzionale collassata il 15 agosto 2021, si siano ulteriormente ridotti. «Prima ci riunivamo almeno una volta alla settimana, ci incontravamo per fare letture di poesie, per commentare le ultime uscite, ma i Talebani ci hanno detto che non si può più fare». Scrivere satira politica è diventato pericoloso, spiega Khazan, che è stata per molti anni la direttrice di un mensile satirico, Achar Kharbuza, Melone sotto-aceto. «Ora scrivo perlopiù storie per bambini, ma ho perso buona parte della spinta a scrivere ed è difficile anche pubblicare: non ci sono soldi nel Paese».
Tra le critiche ai Talebani più diffuse qui a Kabul, c’è proprio quella di non occuparsi dei problemi più urgenti del Paese, che vive una crisi umanitaria ed economica senza precedenti: per le Nazioni Unite, circa il 95 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, il World Food Programme ha stimato in 20 milioni, su 40 milioni totali, la popolazione in grave insicurezza alimentare. Da una parte le sanzioni occidentali, che hanno congelato circa 9 miliardi di dollari della Banca centrale afghana, dall’altra le politiche repressive dei Talebani: la popolazione nel mezzo. «Per venire qui sono stata fermata da un paio di Talebani», continua la scrittrice. «Contestavano il mio modo di vestire. Ma se sono tutta coperta?! Gli ho risposto che il Paese è alla fame, che non c’è lavoro, non ci sono soldi, che dovrebbero occuparsi di quello, non dell’abito delle donne, ma mi hanno mandato via a male parole».
Anche Najiba (nome di fantasia) non accetta il nuovo decreto dei Talebani. Ventuno anni, studentessa di ingegneria ambientale all’Università di Kabul, vive con la madre, la sorella, il padre: «mi dà molto fastidio che qualcuno decida i limiti per gli altri, specie per noi donne. Non mi piace quel decreto e non sono d’accordo», ci dice quando la incontriamo nel centro commerciale Gulbahar, tre piani di negozi lucenti e un piano terra con un caffè rumoroso tra il palazzo presidenziale e il bazar centrale. «Ci stanno sottraendo la nostra libertà, la possibilità di scegliere su ogni cosa». La famiglia è dalla sua parte, ma Najiba teme per il padre. Secondo il nuovo decreto, se le donne non dovessero indossare l’abito conforme sarebbero i loro padri, fratelli, figli a pagarne le conseguenze: la prima volta, una visita dei Talebani, con ramanzina; la seconda, una multa; la terza il carcere. «È un modo per obbligarci a coprire il volto. Prenda il mio caso: se non lo facessi, potrebbero portar via mio padre. Potrebbe succedergli di tutto, anche che lo uccidano».
Nell’intervista che ci concede nel suo ufficio, nella sede di quello che una volta era il ministero per gli Affari femminili poi abolito dai Talebani, il portavoce del ministero per la Prevenzione del Vizio e la promozione della virtù ci dice che «non ci sarà nessuna imposizione», nessuna violenza. Salvo poi enfatizzare che il suo ministero ha a disposizione 7.000 mohtaseb, ispettori «esperti in sharia e giurisprudenza islamica», per far applicare la legge. Camice bianco da medici e lunga barba, alcuni di loro già si vedono in città.
«Decidiamo noi cosa metterci», dichiara sicura un’altra studentessa che incontriamo nel centro commerciale. Anche lei è disposta a parlare, a condizione dell’anonimato. «Chi pretendono di essere per dirci come vestirci?». Wazmah ha 19 anni e studia farmacia. Veste alla moda, con un abito lungo e un foulard colorato. Il contesto, spiega, è cambiato molto in pochi mesi: «abbiamo perso le motivazioni per andare avanti, perfino la confidenza in noi stesse. Io per esempio già so che non diventerò né medico né farmacista, in futuro». Il problema non sono solo i Talebani, «ma un Paese governato dagli uomini e dalla loro volontà, con le donne costrette a obbedire». Quanto all’Islam a cui si appellano i Talebani, «è solo un pretesto. Sappiamo già come comportarci, sappiamo cosa vuol dire dignità. Non è il loro Islam a dovercelo spiegare».
Tra le spiegazioni sulle ragioni del nuovo decreto, la più accreditata tra le nostre fonti è quella che rimanda a una delicata dialettica interna. Da quando sono arrivati al potere, tra i Talebani sono infatti cresciute le tensioni tra fazioni. Il leader supremo Haibatullah Akundzada, pur avendo traghettato il gruppo al potere, è indebolito. Ha dunque lasciato che dentro la Rahbari shura, il massimo organo di indirizzo politico composto da una trentina di membri, i giochi venissero fatti dai più scaltri. Tra questi, gli ultra-ortodossi, gli islamisti più radicali. I quali avrebbero chiesto e ottenuto uno “scambio”: il loro sì alla riapertura delle scuole femminili superiori in cambio del sì dei “pragmatici” all’obbligo del velo integrale. Una partita giocata tutta sulla pelle delle donne. Ma che nelle prossime settimane dovrebbe portare, dopo circa 250 giorni di chiusura, alla riapertura delle scuole per le ragazze sopra gli 11 anni.
Nel centro commerciale Gulbahar incontriamo infine Arezo Osmani. «Sono un’imprenditrice e una lettrice di sociologia all’Università». Trentaquattro anni, modi sicuri, è una donna troppo indipendente per i criteri dei Talebani. «Ho una piccola azienda di prodotti cosmetici. E mi piace l’insegnamento». Il decreto dell’Emirato, sostiene, è solo l’ultimo atto di una vera e propria battaglia contro le donne. Con ricadute sulla loro stabilità
psicologica ed emotiva. «Ci sono traumi giornalieri, apparentemente minori, che avranno conseguenze sul lungo termine, sulla capacità di immaginare il proprio futuro».
L’obiettivo delle nuove autorità di fatto «è farci vivere nascoste, sotto qualunque abito, purché rimaniamo nascoste». Ma è anche quello di «nascondere la loro incapacità nel governare: non sono in grado di individuare buone politiche per il Paese. Sono schiavi di nazioni straniere e non vogliono che il popolo si ribelli. Per questo puntano tutto sulle donne».
È contraria al velo. E intende far valere le sue idee. «Quando hanno annunciato che avremmo dovuto indossare il burqa, l’hijab o il chadori, che non avremmo dovuto mostrare volto o mani, quello stesso giorno ho aperto Facebook e ho postata una mia foto senza velo, a capo scoperto. Non mi importa delle loro politiche, di ciò che dicono o vogliono. Mi piaccio così e continuerò, vediamo cosa succede». Osmani è convinta che ci siano «tante donne e ragazze che, come me, vogliono mantenere la loro libertà: alzeranno la voce e combatteranno per diritti, libertà e indipendenza».