Un’inchiesta giornalistica e due suicidi “eccellenti” hanno acceso i riflettori sullo scandalo. E ora da tutto il Paese arrivano, anche via social, migliaia di denunce per stupro da parte delle giovani ebree (foto di Gianluca Cecere)

Rivka Neriya Ben Shahar ha una voce affilata, profonda. Ti guarda sempre negli occhi, non distoglie mai lo sguardo dal suo interlocutore. Un’abitudine forse legata al suo lavoro di docente e ricercatrice, affiliata all’università di Sderot, ma anche alla sua volontà di cogliere le reazioni di chi ha di fronte. E sono affilati anche i suoi corsivi su Haaretz, uno dei principali quotidiani israeliani. «Ho incontrato per la prima volta i libri di Chaim Walder a casa dei miei nonni. Come tutti i bambini della nostra grande famiglia, cresciuta senza televisione, ero attratta da ogni libro come una calamita e i libri di Walder davano dipendenza», racconta: «Alzavo la testa da uno e mi rendevo conto che erano passate diverse ore. È difficile spiegare a qualcuno che non è cresciuto in una casa ultra-ortodossa di cosa parlano i libri di Walder. Insieme ai libri sul femminismo e sul liberalismo, un gran numero di libri di bambini che si raccontano sta orgogliosamente sui miei scaffali. Sono lì accanto ad Andersen e ai fratelli Grimm, con “Piccole donne” e “Cuore”, tra “Pollyanna” e i libri di Erich Kastner. Ma non sapevo che lui non doveva starci. Perché era un molestatore».

 

Rivka è diventata una delle voci del movimento per la denuncia di abusi sessuali all’interno della comunità degli ebrei ortodossi. Ortodossa lei stessa, nipote di uno dei rabbini più famosi, scrive testi di grande potenza. Lo hanno chiamato #metoo ortodosso, ma Rivka non ama le semplificazioni giornalistiche. «Un problema enorme, che indago da anni. Fin dai tempi delle mie ricerche sul campo nella comunità Amish, negli Stati Uniti, coglievo la dinamica che affliggeva le donne della mia comunità, gli ebrei ortodossi haredim, che con gli Amish hanno molte cose in comune. La prima quella che alle donne, con l’educazione, impartita da uomini, e le interpretazioni religiose, fatte da uomini, si impedisce l’accesso alla tecnologia. Che gli uomini, invece, usano eccome. È un pilastro di un sistema patriarcale, pensato per tenere le donne in una condizione subalterna e impedirle di avere una auto narrazione verso l’esterno».

Gianluca Cecere

Le sue posizioni le hanno spesso creato problemi con i vertici della comunità ortodossa in Israele, ma Rivka non si ferma. E un fatto di cronaca ha fatto emergere quanto profondo fosse il malessere femminile nella comunità. Chaim Walder è stato un rabbino ortodosso molto influente, autore di letteratura per bambini, adolescenti e adulti che è diventata bestseller non solo nella comunità, perché considerato un innovatore, per aver aperto a una letteratura ortodossa non solo religiosa, ma capace di parlare di sentimenti. A novembre 2021, un’inchiesta di Haaretz ha reso pubbliche le accuse di diverse donne contro Walder, aggressioni sessuali subite da lui mentre erano sotto le sue cure come terapeuta. Due delle accusatrici, al momento della violenza subita, erano minorenni. Quando la bomba è scoppiata è come se si fosse lacerato un sipario corrotto: sono diventate 25 le donne che si sono fatte avanti con ulteriori accuse contro Walder. Il tribunale rabbinico di Safed ha stabilito che, per un periodo di venticinque anni, Walder ha abusato sessualmente di donne, ragazze e ragazzi che si erano rivolti a lui per un trattamento. Walder non ha resistito allo scandalo, alle pressioni e soprattutto, secondo molti suoi conoscenti, alla condanna di quel tribunale rabbinico dal quale era convinto di essere protetto. E si è tolto la vita il 27 dicembre 2021, all’età di 53 anni.

 

«Quando penso ai miei figli assorti nella lettura dei suoi libri resto ancora sconcertata. Come può una persona che è cresciuta in una “tipica” casa haredi avere quella sensibilità narrativa e allo stesso tempo essere un predatore?», aggiunge, prima di sottolineare: «Credo alle vittime, anche a quelle che non si sono fatte avanti, dall’inizio. E sapevo, fino a quando non fosse emerso, che non era un caso isolato. Il nostro mondo ha lasciato per troppo tempo nelle mani degli uomini il potere, l’amministrazione del denaro, l’istruzione. Questo non poteva che generare una sensazione di invulnerabilità, un sistema nel quale le donne, se non hanno voce, sono un oggetto come un altro, del quale fare quello che si vuole. Non devo certo spiegarlo a un italiano, rispetto alle molestie sessuali nel clero cattolico. E non è solo, Walder».

Gianluca Cecere

Poco dopo il caso Walder, il 21 aprile scorso, i soccorritori allertati dalla famiglia trovano appeso a una corda nel suo appartamento Yehuda Meshi-Zahav, fondatore molto noto del servizio di emergenza sanitaria religiosa Zaka. Aveva tentato il suicidio, a poche ore dal suo arresto, per le decine di accuse di stupro che gli erano state rivolte e che le indagini della magistratura in Israele avevano confermato. Il canale televisivo Channel12 aveva annunciato un’inchiesta su di lui e sul fatto che, almeno dal 2013, le autorità fossero a conoscenza delle denunce, ma non si fossero mai mosse. «Parlare di complicità è sbagliato, ma è oggettivo che sono questioni che tutti, ma proprio tutti, preferivano che fossero trattate all’interno della comunità. Bene, lo stiamo facendo. Ed è tempo che una giovane generazione di ebree ortodosse cessino di essere oggetto di violenze e della narrazione, per riprendersi il diritto alla loro storia. Hanno già iniziato a farlo», sostiene Rivka.

 

Una delle iniziative che ha raccolto un successo incredibile è stata Lo Tishtok, che in ebraico significa «Non resterai in silenzio». Un gruppo Facebook, un hastag sui social, e in pochi mesi migliaia di denunce sono arrivate da ogni parte di Israele. Iniziativa merito di Shana Aaronson, direttrice esecutiva di Magen for Jewish Communities, una ong con sede in Israele che fornisce servizi di educazione sessuale e supporto per la salute mentale, oltre a garantire supporto legale alle vittime di abusi. Shana, laureata in psicologia, assiste donne con storie di traumi sessuali e fisici, attività che già svolgeva negli Stati Uniti, da dove arriva. Grandi occhi azzurri, una fascia colorata tra i capelli, sorseggia il suo caffè in Jaffa Road, guardando il traffico di Gerusalemme. «Ero convinta che venire qui fosse una promessa da mantenere verso i miei figli, ma non avrei mai pensato che fossero così tanti i casi di abusi nella comunità. Molti, tra di noi, non capiscono fino in fondo quello che facciamo», racconta, con un po’ di malinconia: «Ma non è contro le comunità ortodosse, anzi, esattamente il contrario. È per loro, per tutti noi. Quella nostra unicità, alla quale teniamo tanto, deve essere preservata proprio grazie a un processo di rinnovamento che parta da noi. E le donne, troppe donne, per troppi anni, sono state costrette al silenzio da quella stessa comunità che amavano, dalla quale chiedevano protezione. Questo silenzio ha portato molte di loro ad odiare il nostro mondo. Quello che stiamo facendo con la campagna serve a impedire che le ingiustizie e le violenze, gli abusi su donne e minori, portino alla fine di un mondo che invece solo con la giustizia e la protezione dei suoi membri, soprattutto dei più fragili, può essere salvato». Shana si occupa di assistere in tutto l’iter le vittime che escono dal silenzio: dalla denuncia alla sentenza finale, in collaborazione con i servizi sociali che si occupano dei minori e delle donne che hanno bisogno di essere allontanate dalla famiglia o dal contesto delle violenze.

 

«Siamo solo all’inizio, ma sarà una marea», racconta Shana: «Alti responsabili tra i rabbini mi hanno chiesto di scrivere una lettera sul tema, che avrebbero analizzato. Mi sono rifiutata, lo devono fare le vittime. E mi hanno stupito: mi hanno chiesto di incontrarle. Ho chiesto chi se la sentiva ed è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita portare da loro prima Y., poi R.».

Gianluca Cecere

Y. e R., solo due iniziali, per proteggerle, ma allo stesso tempo per lasciare che siano le vittime a raccontarsi. Shana ci mette in contatto, in modo protetto, con loro. Le loro storie sono simili, nella violenza, ma molto diversa. La prima, Y., lavorava nell’amministrazione di una scuola religiosa. «È iniziato tutto con un docente e non mi vergogno a dire che, all’inizio, mi sentivo corteggiata. È peccato, lo so, ma era piacevole. Non era mai accaduto nulla, poi all’improvviso un bacio inatteso. Ho lasciato correre, ero scossa, mi sentivo sporca, ma ho pensato: “Ha capito che la deve finire, come gli ho detto”». Invece per Y. è iniziato un calvario che è andato avanti mesi, con violenze sempre più invasive, fino alla sua denuncia ai dirigenti scolastici. «Mi sembravano costernati. Poi hanno licenziato me. E io, per settimane, incontravo il mio molestatore per strada, con la mia famiglia che non credeva a me, anzi, mi accusava di averlo provocato». Non era sposata Y., mentre R. è vittima dell’uomo che credeva di amare, anche lui studioso piuttosto noto di testi sacri.Una vita di botte, stupri, umiliazioni. «Non respiravo ogni volta che era in casa. L’ho capito solo dopo anni», racconta R.: «In fondo mi stordivo con l’apnea e ho troppa paura di Dio per pensare che stessi tentando di suicidarmi. Preferisco pensare che trattenere il respiro fin quasi a morire fosse il mio modo di andare altrove, volare via da quell’incubo».

 

Sono sette le vittime che Shana ha portato di fronte ai rabbini. «Mi sono seduta ad ascoltare storie di stupro, incesto, molestie, devastazione, intimidazione, omertà. Ho sofferto con loro, non come loro, quello è impossibile. Accanto a quel dolore, però, in quella stanza c’era una corrente elettrica enorme. Speriamo sia l’inizio di una nuova era, ma comunque indietro non si torna. E adesso lottiamo fianco a fianco con femministe laiche, che prima non si avvicinavano a noi, perché siamo credenti. Ecco, sarà perché sono credente, ma a me pare un miracolo».