La cittadina è una piccola oasi nel Paese, a cui si aggrappa chi ci ha sempre vissuto e chi è arrivato dalle zone martoriate. «I bambini ogni volta però che sentono un rumore mi chiedono se sia la sirena e si debba andare nel rifugio»

Danill Kaharov, 26 anni, volontario, incarna a pieno le due anime di Chernivtsi. La cittadina ucraina in cui non è arrivata la guerra è tesa tra i preparativi per fronteggiarla e il bisogno di respingerla. «Cosa facciamo quando suonano le sirene? Semplice: viviamo». Kaharov parla mentre guida per la via centrale della città, lastricata di quei sampietrini retaggio della dominazione austriaca. In questa parte del Paese, vicina al confine con la Romania, le persone vogliono disperatamente continuare a vivere.

 

È un equilibrio fragile, lo raccontano i sacchi di sabbia e i cavalli di Frisia ai lati delle strade, le bandiere che sventolano a ogni edificio. Si passeggia vicino ai militari con le armi in spalla, tendendo le orecchie per intercettare l’allarme e raggiungere il rifugio più sicuro. I ripari sono disseminati in vari punti, segnalati da scritte a caratteri maiuscoli. In giro si trova molto meno gasolio, spesso bisogna provare in più distributori. Eppure, prima che arrivino le 23, con il coprifuoco e l’obbligo di spegnare ogni luce in città, qualcuno riesce anche ad andare al ristorante.

 

Come Sofiia Maksymchuk, insegnante d’inglese in una scuola elementare. «Ho mangiato fuori e per un attimo non ho pensato alla guerra. So che è brutto, perché c’è chi da giorni non ha cibo. Ma credo sia anche naturale svagarsi». Lei e suo marito, che lavora al mercato di Chernivtsi e come la maggior parte degli uomini qui è riservista, hanno deciso di portare il figlio di sette anni dai nonni, in un villaggio a 70 chilometri di distanza. «Lo andiamo a trovare ogni fine settimana, partiamo il venerdì e torniamo il lunedì, sono più tranquilla così», dice Maksymchuk. Che ricorda il 24 febbraio, il giorno dell’invasione, con una punta doppia di dolore: «Era il compleanno di mia madre, doveva essere un momento felice. Subito dopo abbiamo avuto due settimane di stop ed è stato orribile: ero sempre a casa a leggere le notizie. Tornare al lavoro è stato meglio, qui non penso alla situazione e cerco di distrarre i bambini impegnandoli su altro ma loro sono perfettamente consapevoli».

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Ne è convinta anche Rimma Buchok, proprietaria di una scuola privata d’inglese. «Nei primi giorni i piccoli arrivavano con i muscoli contratti, gli facevo sempre un massaggio per distenderli. Ora va meglio, ogni volta però che sentono un rumore mi chiedono se sia la sirena e si debba andare nel rifugio». Buchok ha cercato di renderlo il più confortevole possibile, ai muri grigi ha appeso i disegni colorati e ha coperto il pavimento con i tappeti. «Nel rifugio c’è una buona connessione Internet e possiamo continuare a far lezione». Un privilegio che fa la differenza perché in Ucraina tutte le classi sono in Dad, per ragioni di sicurezza e per garantire continuità a chi ha dovuto trasferirsi. «Da quando tutto è iniziato i bambini sono cambiati. Se giochiamo con le bandiere, tutti vogliono quella dell’Ucraina». A volte indicano le altre per chiederle: «Questo Paese è nostro amico?». La loro canzone è diventata “Superhero”, in cui un supereroe in tuta blu e gialla elenca alcuni verbi in inglese. Al ritornello tutti sollevano il braccio e fingono di volare, proprio come Superman: «È il loro modo per sentirsi parte di qualcosa», spiega la maestra.

 

«In una situazione simile è importante non perdere il contatto umano con gli studenti anche se a distanza», dice Sergii Kizima, professore di Scienze e astronomia. «Sono diventati adulti in poche settimane. Noi gli chiediamo come stanno, se sono al sicuro, li invitiamo ad accendere le telecamere del pc anche quando sono nei rifugi e non hanno voglia di farlo», prosegue.

 

La guerra ha ridisegnato la didattica. Ai più piccoli provano a spiegarla usando i fumetti diffusi dal ministero dell’Istruzione, in cui il conflitto è presentato come una lite tra fratelli. Ai più grandi, per memorizzare la grammatica inglese, propongono l’analisi dei discorsi che il loro presidente, Volodymyr Zelensky, fa davanti ai leader internazionali. Le due facce di Chernivtsi, tesa eppure sorridente, Kizima le spiega con una metafora: «Quando ti rompi un braccio il tuo corpo non smette di funzionare. Vale lo stesso per noi. La nostra regione è la più piccola e l’unica senza la guerra. Dobbiamo mandare avanti l’economia, fornire a chi arriva supporto umanitario. Ci sono i militari al fronte e poi ci siamo noi, che facciamo un altro tipo di resistenza. Non con le armi ma aiutando gli altri». Per questo motivo una parte della scuola è stata riconvertita in centro di prima accoglienza, con lunghe file di scarpe e scatoloni pieni di abiti messi a disposizione dei profughi interni. C’è anche del cibo preparato ogni giorno dagli insegnanti, che nel frattempo sono diventati volontari.

 

Chernivtsi è il punto di arrivo di tanti in cerca di un posto sicuro senza dover lasciare l’Ucraina, molti sono studenti. Tra loro Maria e Marina, di Zaporizhzhia, caduta in mano russa all’inizio dell’offensiva. Maria studia Economia ed è arrivata da sola lo scorso fine settimana, raggiungendo gli zii. «Mi manca tutto. Gli amici, l’università, la mia comunità. E poi sono partita con pochissime cose, due paia di jeans e tre magliette, troppo poco per una ragazza». Ride, però ha gli occhi lucidi: «Ogni volta che chiamo mamma per sapere come sta mi dice che è sottoterra per via dei continui allarmi. È difficile, ormai vivo giorno per giorno e non faccio programmi». Marina è a Chernivtsi dall’inizio della guerra, studia Moda e qui ha amici e parenti: «Mi sento un po’ come a casa e per il momento non voglio andarmene. Certo questa città è un quarto di Zaporizhzhia, molto più piccola, ma ci sto bene».

 

Oltre ai ragazzi provenienti da altre parti dell’Ucraina, ci sono quelli che sono nati qui e ci vivono. Nastya, con il sogno di diventare insegnante. «Tutto è cambiato, suonano le sirene e ogni volta bisogna mettersi al riparo. Comunque non ho dubbi, l’Ucraina vincerà». Viktor, iscritto a Ingegneria, ha rivisto le sue priorità: «Come volontario ogni giorno vado a caricare e scaricare i camion carichi di cibo e beni di prima necessità». Ne arrivano tanti anche dall’Italia, l’ultimo organizzato dalla Ong romana Vivere la gioia. «Come esperto di computer, invece, ho partecipato ad alcuni cyberattacchi contro i russi», prosegue Viktor. Vorrebbe frequentare l’università anche in Italia, forse a Roma o a Pavia, dove vive già sua madre. «Mi piacerebbe imparare qualcosa all’estero e portarla nel mio Paese per la ricostruzione. Pero è dura, la mia vita è cambiata, ho visto morire le persone». A Yuliia, secondo anno di Giurisprudenza, la guerra ha fatto capire di voler lavorare per aiutare gli altri. «Lo pensavo già da qualche mese e ora ne sono ancora più convinta. Essere parte di una Ong sarebbe l’ideale. Faccio già la volontaria. La mia paura è che il conflitto possa durare anni se non vinceremo o gli altri Paesi smetteranno di supportarci. Ma rimarrò», dice. Non pensa di andarsene neppure Alyona, studentessa di Filologia e letteratura, indecisa tra la carriera di editor e quella di giornalista. «Mi sento al sicuro, anche se so che da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa».

 

Chernivtsi è una piccola oasi nell’Ucraina in guerra, a cui si aggrappa chi ci ha sempre vissuto e chi è arrivato dalle zone martoriate. Nella piazza centrale i militari pranzano accanto ai passanti, qualcuno scatta foto all’edificio maestoso dell’università, considerato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. I locali trasmettono musica, gli schermi non sono mai accesi sui telegiornali. Gli sfollati possono avere bevande e cibo gratis in molti bar, vestiti e alloggi temporanei nelle scuole. Gran parte dei residenti si è reinventata volontaria, sperando di rimanere nel ruolo di chi aiuta e non passare mai dall’altra parte. «Io credo, voglio credere che non arrivi qui», dice Sofiia Maksymchuk. Probabilmente, è il pensiero di tanti.