I crimini di Putin
Guerra in Ucraina: gli orrori di Motyzhyn, il villaggio delle torture
A pochi chilometri da Kiev i russi hanno seviziato un intero paese. Il racconto di un superstite. E i documenti esclusivi sul coinvolgimento dei mercenari filonazisti del gruppo Wagner
Il 29 febbraio scorso, un comandante di plotone russo e la sua unità arrivarono a Motyzhyn, piccolo villaggio rurale di mille anime, appena a sud dell’autostrada che porta a ovest di Kiev. L’uomo ordinò ai soldati di scavare un rifugio per le truppe, nascondere l’artiglieria nei boschi e allestire un campo di torture. Il suo nome è Oleg Krikunov, meglio conosciuto come Kaluga, uno dei criminali russi più ricercati dall’inizio dell’invasione in Ucraina. A inizio maggio, Krikunov e i suoi uomini sono entrati a far parte di un elenco di decine di militari a cui le autorità ucraine danno la caccia per consegnarli alla giustizia e processarli.
Mentre i loro comandanti vantano missioni in Africa e Medio Oriente, molti altri ricercati sono giovani reclute alla prima esperienza, soldati semplici nati e cresciuti nelle aree più povere della Russia. Sono accusati di stupri e esecuzioni sommarie che compongono l’elenco contenuto nel file spedito dagli investigatori ucraini ai procuratori dell’Aja che lo scorso marzo hanno aperto un procedimento per crimini di guerra contro il presidente russo Vladimir Putin. Dal fascicolo, ottenuto da L’Espresso, emergono i dettagli raccapriccianti di centinaia di torture e violenze sistematiche messe in atto dai battaglioni russi nei confronti della popolazione civile, spesso con l’unico obiettivo di terrorizzarla, sfogando le frustrazioni per un conflitto che non andava secondo i piani di Mosca.
Quando Kaluga e i suoi uomini giungono a Motyzhyn, fanno irruzione in un centro di riabilitazione per ex tossicodipendenti. All’interno vivono una decina di ospiti e sono tutti disarmati. L’obiettivo del plotone è quello di strappare qualsiasi informazione utile sulle posizioni militari ucraine nella regione, dopo che il comandante della difesa territoriale del villaggio se l’è data a gambe levate ai primi colpi di artiglieria. Oleh Bondarenko, che da 10 anni gestisce la struttura per ex eroinomani, si fa avanti per interloquire con i soldati. Bondarenko conosce il Vangelo a memoria ed è in grado di recitare numerosi passi della Bibbia, ma non sa nulla di come funzioni una guerra. E soprattutto, non ha la più pallida idea di dove siano nascosti i soldati ucraini. L’uomo prova a spiegarsi, ma è tutto inutile, perché Kaluga ha già deciso. Prima fa crivellare il centro di pallottole. Poi ordina ai suoi uomini di rompere i denti a Bondarenko, bendarlo, legarlo ad un quad e trasferirlo nel campo di torture appena allestito in un vecchio casolare distante alcune centinaia di metri.
Una volta arrivati, Bondarenko viene trascinato nella sua “cella”, un grosso tubo di cemento affondato nel terreno per fungere da cisterna d’acqua, troppo piccolo per stare in piedi, e non abbastanza largo per sedersi. Da lì, per due settimane, uscirà solo per assistere alle inumane torture inflitte a decine di abitanti.
«Quel giorno entrai nel Russkiy Mir, il “Mondo Russo’’», dice Bondarenko: «Le torture erano sistematiche. I civili venivano sottoposti allo stesso sadico rituale. Prima gli spezzavano braccia e gambe. Poi, con l’avvicinarsi della morte, sparavano alle mani o alle ginocchia per causare il massimo dolore. Infine venivano fatti fuori con un colpo di pistola allo stomaco e uno alla nuca. Potevo sentirli urlare dal dolore mentre li torturavano, anche per un’ora e mezza e ho pregato che gli togliessero la vita il più velocemente possibile».
Stessa crudele routine Kaluga ha ordinato per Olga Petrivna, l’amata rappresentante del Consiglio del villaggio. Dopo la fuga del responsabile per la difesa territoriale, Olga aveva scelto di restare insieme al figlio e al marito e coordinare gli aiuti e la difesa della cittadina. Una scelta che tutti hanno pagato con la vita. I loro corpi, seppelliti con gli altri nelle fosse comuni. Oggi, un grande cartellone con una loro foto campeggia all’ingresso del villaggio dall’autostrada. C’è scritto: «Eterno rispetto dalla gente di Motyzhyn».
Non si tratta di orrori gratuiti. Per i procuratori ucraini, quanto accaduto è opera di un plotone di professionisti del martirio addestrato nei campi della Siberia, esercitatosi già in uno dei fronti più caldi del pianeta, a più di duemila chilometri da Motyzhyn. «I più crudeli erano tre soldati che gongolavano del loro trasferimento in Ucraina dal Medio Oriente», racconta Bondarenko: «Dicevano che dopo la Siria, per loro l’Ucraina era una passeggiata».
Molti soldati russi dislocati in Ucraina, provengono dalla guerra civile in Siria, a cui Mosca si è unita nel 2015 per sostenere il presidente Bashar al-Assad. E alcuni fanno parte del gruppo Wagner, la compagnia militare privata di mercenari filonazisti che ha operato in Medio Oriente e che sarebbe alle dirette dipendenze di Putin.
I tre di cui parla Bondarenko hanno un nome, un cognome e persino un volto. Uno è Sergey Vladimirovich Sazanov, 51 anni, nato a Rechitsa, in Bielorussia, ed è uno dei 300 mercenari Wagner che hanno partecipato all’offensiva del febbraio 2018 nella provincia siriana di Deir ez-Zor. L’altro, Alexander Alexandrovich Stupnitsky, 32 anni, di Orsha, in Bielorussia, è stato identificato come ufficiale di collegamento per il plotone d’assalto della prima compagnia di ricognizione del Gruppo Wagner. Il terzo è Sergey Sergeevich, 33 anni, è nato a Kaliningrad, in Russia ed è uno degli autisti dei veicoli militari della compagnia.
Denis Korotkov, giornalista russo ed esperto del gruppo Wagner, ha confermato a L’Espresso che i primi due avevano precedentemente lavorato per il gruppo di mercenari. «Sazonov e Stupnitsky sono nei miei file», ha detto. Ad oggi i responsabili del massacro di Motyzhyn sono a piede libero, anche se gli investigatori non escludono che alcuni possano essere stati uccisi sui fronti del Donbass.
Le autorità ucraine, al momento, hanno identificato oltre 5.000 soldati russi che hanno operato nella regione di Kiev. Centinaia sono sotto inchiesta e decine quelli per i quali è stato già emesso un mandato di cattura internazionale.
Nella lista, anche i i nomi dei membri della 64esima brigata russa di fucilieri motorizzati, ritenuta responsabile dei massacri nel villaggio di Bucha, a nord di Kiev, dove sono stati ritrovati i corpi di centinaia di civili nelle fosse comuni. Uno di questi è Kolotsei Sergey Aleksandrovich, ed è accusato di «avere ucciso almeno 4 civili disarmati». Secondo i pubblici ministeri, nel marzo 2022, mentre si trovava nella città di Bucha, Aleksandrovich avrebbe legato e torturato decine di abitanti e avrebbe costretto un’altra vittima a confessare le attività della resistenza ucraina dopo averla obbligata, scrivono i procuratori, ad «annusare il cadavere di un altro uomo».
Almeno due della lista sono accusati di stupro. Uno è Fassakhov Bulat Lenarovich, 20 anni, operatore radio della divisione di artiglieria della 30esima brigata. Il 12 marzo, alle 19, mentre si trovava nel villaggio di Bobryk, nel distretto di Brovary, Fassakhov è entrato nella casa dove viveva una giovane donna con la sua famiglia. E lì, «con l’uso della violenza fisica», prima avrebbe costretto la ragazza a spogliarsi e poi l’avrebbe violentata. In gruppo, poi, avrebbe ripetuto la violenza su un’altra donna di Bobryk. Il 9 marzo, nel villaggio occupato di Bogdanivka, un altro soldato russo, di nome Romanov Mikhail Sergeevich, membro della fanteria motorizzata, avrebbe «premeditato l’omicidio di un residente locale e lo stupro di sua moglie».
Per acciuffarli, il ministero della Difesa ucraino ha autorizzato la procura a supervisionare tutti gli scambi tra prigionieri di guerra russi e ucraini. Solo i prigionieri russi che non sono sospettati di crimini potranno lasciare il Paese. Una precauzione necessaria. Si sa che Vadim Shishimarin, il giovane soldato condannato all’ergastolo lo scorso 23 maggio dai giudici della corte penale di Kiev, perché ritenuto colpevole di aver ucciso un civile disarmato nella città di Sumy, non ha agito da solo. E chi gli diede l’ordine è in Russia, grazie allo scambio di prigionieri.
Il testimone dell’orrore di Motyzhyn, Bondarenko, ha ancora il corpo ricoperto di cicatrici e un trauma alla colonna vertebrale che potrebbe essere permanente. Collabora con le autorità ucraine. Ma se è ancora in vita lo deve a due russi, due reclute a cui l’aguzzino Kaluga aveva assegnato il compito di cucinare per la truppa. «Mi hanno sfamato e dissetato di nascosto», racconta: «Poi, quando l’artiglieria ucraina si è avvicinata per riprendere Motyzhyn, mi hanno chiesto di nascondermi e di attendere almeno due ore prima di uscire. Prima di andarsene, mi hanno chiesto di pregare per loro. E l’ho fatto», aggiunge, con gli occhi inumiditi dalle lacrime. «Ho pregato e continuo a farlo ogni giorno. Spero siano ancora vivi. Loro non hanno mai voluto prendere parte a questa guerra».
Oggi, attorno al campo di torture di Kaluga, si trovano ancora indumenti e oggetti abbandonati dai soldati russi prima della ritirata. Tra scarpe, magliette e scatole di munizioni, spicca la copertina di un libro in russo. Si intitola “Racconti e Fiabe” e giace a poche decine di metri dalla fossa comune in cui sono stati seppelliti i corpi di Olga Petrivna e della sua famiglia. Metafora perfetta di questa guerra: le favole che un Paese invasore racconta alla sua gente per coprire gli orrori delle proprie truppe, a una manciata di chilometri dal confine.