Il presidente Usa incontrerà il leader accusato di omicidi e massacri. Perché senza il suo aiuto il prezzo della benzina salirà. E i democratici perderanno le prossime elezioni

Le delegazioni vanno e vengono tra le due capitali, per mettere a punto i dettagli dello storico incontro. Le “mediazioni” si susseguono, discrete, nel tentativo di forgiare un accordo che renda omaggio anche alla concretezza delle politica, non soltanto alla sua duttilità come strumento di propaganda da attivare alla bisogna per risollevare destini personali. C’è aria di riconciliazione tra Ryad e Washington, dopo un anno e mezzo di porte sbattute in faccia, di telefoni lasciati squillare all’infinito, di ambasciatori, anche dai nomi altisonanti come quello di Boris Johnson, rispediti indietro con le ossa (metaforicamente) rotte.

 

Sono molte le ragioni che hanno spinto Joe Biden a rinnegare l’aperta avversione manifestata, prima come candidato alla Casa Bianca e poi come presidente, verso l’erede al trono saudita, Mohamed Bin Salman. Noto alle cronache come Mbs, il giovane principe non ancora trentaseienne, grazie ad una folgorante ascesa accompagnata da una rapace accumulazione di incarichi, è diventato il reggente di fatto. Anche a causa del declinante stato di salute del padre, re Salman, 86 anni, l’ultimo dei cosiddetti Sudayri, i sette figli maschi, tutti a loro volta diventati re, di Abdel Az Ziz al Saud, il monarca fondatore della moderna Arabia Saudita.

 

Si può dire che, a differenza di Donald Trump, disposto a condonare qualsiasi cosa al giovane aspirante al trono di Ryad, nulla delle vicende che in questi anni hanno reso Mbs tristemente famoso, conferendogli una sinistra ombra di tracotanza e inaffidabilità, dal suo coinvolgimento nell’efferata uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, alla guerra contro gli Huthi nello Yemen, dalla dura repressione messa in atto contro i fautori dei diritti umani ai metodi violenti dispiegati nella lotta contro i suoi pari per la conquista del potere assoluto, nulla di tutto questo era passato sotto silenzio all’esame di Biden. O almeno così sembrava.

 

Il nuovo presidente che da candidato si era appellato a fare dell’Arabia Saudita uno stato “paria”, un reietto della comunità internazionale, subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca aveva rincarato la dose autorizzando nel febbraio del 2021 la pubblicazione del rapporto dell’intelligence americana in cui si accusa Mbs di aver ordinato l’operazione che ha portato alla uccisione, con successivo smembramento e scomparsa del cadavere, di Jamal Khashoggi nei locali del Consolato saudita di Istanbul. Da quel momento Biden aveva cessato i rapporti con Mbs. Alcuni membri dell’entourage del principe, coinvolti nel caso, erano stati sanzionati e impediti di mettere piede negli Stati Uniti. Per questo, adesso, la sua appena malcelata urgenza, di stringere la mano di Mbs appare sospetta per lo meno d’ipocrisia. Ovvero, per dirla con un commentatore del New York Times, appare come «il trionfo della realpolitik sull’indignazione morale!».

 

Ma cosa si ripromette Biden di ottenere dal suo viaggio a Ryad da pellegrino penitente? Secondo alcuni osservatori, il viaggio altro non è che il tentativo cruciale da parte dell’Amministrazione americana di impostare un nuovo sistema di rapporti con i paesi del Golfo produttori di petrolio, i quali, dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, al di là della formale adesione alla risoluzione di condanna di Mosca adottata dal Consiglio di Sicurezza, hanno poi voltato le spalle alle richiesta degli Stati Uniti di aumentare la produzione di petrolio, in modo da sopperire alla mancanza di greggio sul mercato imposta dalle sanzioni contro la Russia e stabilizzare il prezzo del barile costantemente in ascesa dallo scoppio della guerra.

 

Da qui le manovre reiterate da parte di Washington e alleati occidentali per convincere l’Arabia Saudita (secondo paese produttore al mondo per quantità giornaliera di barili estratti assieme alla Russia) e agli Emirati di accrescere la produzione. Anche per far calare il prezzo della benzina alla pompa, un fattore che rischia di avere conseguenze negative per Biden alle elezioni di medio termine di novembre.

 

Finché ha potuto, Mbs ha continuato a resistere alle pressioni americane. Ma la diplomazia ha fatto il suo corso e giovedì scorso da Ryad sono state lanciate due notizie destinate a compiacere Biden:

  • 1) l’Opec+, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio di cui Ryad vanta la leadership e di cui fa parte anche la Russia, ha annunciato che la produzione sarà aumentata di circa il 50% nei mesi di giugno e luglio (ottima notizia ma, secondo gli esperti, non sufficiente a determinare un’inversione di tendenza nei prezzi);
  • 2) il governo riconosciuto internazionalmente dello Yemen, sostenuto da Ryad, e il movimento Ansar Allah, cui fa capo la popolazione sciita degli Huthi, al potere dal 2015 a Sanaa, hanno deciso di estendere di altri due mesi la tregua mediata dalle Nazioni Unite. La Casa Bianca si è complimentata con il governo saudita per entrambe le novità.

Se uno degli obbiettivi di Biden è stato sin dall’inizio la cessazione della guerra scatenata da Mbs nel 2015 contro gli Huthi, sospettati di godere dell’appoggio militare dell’Iran, allo scopo di far cessare le sofferenze imposte alla popolazione civile da carestia, siccità e bombardamenti con armi occidentali, il principe guerriero di Ryad ha, di contro, lamentato l’indifferenza degli americani verso le azioni belliche, secondo lui, “terroristiche”, condotte dagli Huthi contro lo stato saudita e relative infrastrutture civili. In questa sua protesta, Mbs non tiene però conto che a muovere guerra contro gli Huthi è stata una coalizione di paesi arabi guidata da Ryad, che si è assunta di sostenere i costi del conflitto (circa un miliardo di dollari al mese), coalizione cui le forse armate americane hanno offerto sostegno di addestramento e d’intelligence.

 

L’altro obbiettivo principale della visita di Biden, solo formalmente separato dal primo, è di favorire una svolta diplomatica nei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, attraverso l’adesione conclamata del regno degli al Saud agli Accordi di Abramo (cui hanno aderito finora soltanto Uae, Bahrain e, in misura minore, Marocco e Sudan).

 

Come accade spesso in politica, qui il confine tra realtà e apparenza è inesistente. Quello che viene percepito come realtà spesso è solo apparenza e viceversa. Così si può tranquillamente affermare che la presunta distanza politica tra Ryad e Tel Aviv, o, se vogliamo restare ai rispettivi domini religiosi, tra la Mecca e Gerusalemme, è solo apparenza. In realtà i due ex nemici si parlano, eccome, trattano e fanno affari insieme senza dare nell’occhio. Come è successo qualche tempo fa con la visita, naturalmente segreta, a Ryad dell’ex capo del Mossad, Yossi Cohen, il quale avrebbe aperto la strada al gruppo tecnologico industriale Nso, il cui fiore all’occhiello è rappresentato dal sistema di sorveglianza individuale Pegasus (forse adoperato anche nel caso Khashoggi).

 

Molti sono gli interessi politici coincidenti tra Israele e Arabia Saudita, a partire dalla dichiarata ostilità dei due governi verso qualsiasi progetto nucleare coltivato da Teheran. A questo proposito i servizi di sicurezza israeliani hanno provveduto a sgomberare il campo di un possibile scoglio su cui si sarebbe potuto arenare il dialogo con l’alleato e protettore Biden uccidendo a Teheran un alto ufficiale dei Guardiani della Rivoluzione, il Colonnello Sayad Khoday o Khodayer, e rivendicandone l’uccisione, cosa apparentemente mai successa prima, con gli alleati americani. L’agguato contro il colonnello, assassinato da due killer in moto, avrebbe avuto l’effetto di dirottare verso un binario morto i colloqui in corso da mesi a Vienna tra iraniani, americani ed europei, per far rivivere l’accordo sul nucleare (Jcpoa) fatto a pezzi nel 2018 da Donald Trump, su pressione del leader israeliano Netanyahu. Adesso è il successore di Netanyahu, Naftali Bennet, a rallegrarsi del nuovo deragliamento.