Approfittando del conflitto in Ucraina il sultano di Istanbul si prepara a entrare in Siria con l’esercito. Obiettivo: costringere la popolazione del Kurdistan siriano ad emigrare e insediare qualche milione di rifugiati arabi

Sul grande scacchiere della crisi scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina ha saputo guadagnarsi e mantenere, almeno finora, una posizione strategica centrale, in grado al tempo stesso di promettere fruttosi rapporti con la Russia di Putin pur restando membro della Nato. Ma poiché è un giocatore capace di esibirsi su diversi tavoli contemporaneamente, è sul Levante che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si prepara a fare la sua puntata “all-in”: lanciando la quarta operazione militare in sei anni nel Nord Est della Siria, allo scopo di allontanare gli indipendentisti curdi dalla frontiera ed allungare ulteriormente la cosiddetta “fascia di sicurezza”, profonda 30 chilometri, in parte già sotto controllo delle forze armate turche e delle milizie loro alleate.

 

A questa già impegnativa agenda, si potrebbero aggiungere altre due partite in corso: il difficile negoziato con la Svezia e la Finlandia, cui Erdogan ha sbarrato il cammino d’accesso nell’Alleanza Atlantica, accusando le due democrazie nordeuropee di non essere altro che “pensionati” per terroristi in fuga, alludendo alle organizzazioni curde Pkk e Ypg; e la disfida dell’Egeo, ovvero il fresco duello tra il sultano di Istanbul e il premier greco, Kiriakos Mitsotakis, per guadagnarsi le grazie (e le forniture militari) della bella di Washington, vale a dire dell’Amministrazione americana sotto lo scettro non proprio fermissimo di Joe Biden.

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Per quanto questi temi possano apparire disparati, in realtà tutto si tiene in questa parte del mondo. E tutto sembra spiegare, se non giustificare, il funambolico attivismo della politica estera di Erdogan. Il quale, su questo non ci piove, continua a perseguire una strategia di conquista: proprio in questi giorni ha confermato che le truppe di Ankara, circa 1500 soldati più 7000 “legionari” dell’Esercito Nazionale Siriano, gli ex disertori dell’esercito di Damasco passati al soldo del sultano di Ankara, resteranno in Libia per altri 18 mesi.

 

Quello che è cambiato radicalmente è il sistema di alleanze che Erdogan aveva elaborato ed al quale era rimasto fedele negli ultimi anni. Basti pensare al viaggio a Riad, compiuto in primavera, con il capo cosparso di cenere, il cui intento era chiaramente di ricucire i rapporti, “scurdammoce ‘o passate”, con l’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, strangolato e fatto a pezzi nel Consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul.

 

E si potrebbe proseguire con la svolta impressa alle tempestose relazioni con Israele, che ora si prepara a votare per la quinta volta in tre anni dopo la fine del governo Bennet-Lapid. Erdogan non è più il principe vendicatore della causa palestinese. Tra Gerusalemme e Ankara si susseguono le visite di ministri e capi dei rispettivi servizi segreti. Gli agenti turchi avrebbero scoperto un complotto iraniano per uccidere turisti israeliani in viaggio in Turchia. Anche l’uomo forte egiziano, Al Sisi, nonostante la spietata repressione messa in atto contro i Fratelli Musulmani, un tempo protetti dalla Turchia, viene visto con simpatia dal potere di Ankara.

 

L’onda lunga della spietata invasione russa dell’Ucraina propone nuove sfide, impone aggiustamenti. L’Europa ha sempre sofferto le spericolate manovre di Erdogan con i tre milioni e settecentomila rifugiati siriani che nelle mani del sultano costituiscono una leva potentissima. Ma con i guai in cui sta sprofondando il Vecchio Continente, la crisi energetica che morde, i prezzi alle stelle, le due, tre anime dell’Occidente che si contendono la strategia dell’Alleanza Atlantica verso la Russia, a chi può venire in mente di fare il controcanto alle sorprendenti iniziative di Erdogan?

 

Il quale può permettersi di opporsi all’allargamento della Nato a Svezia e Finlandia, mentre non nasconde di pensare a una “risistemazione” dei rapporti con l’Unione Europea, che già versa sei miliardi di Euro l’anno perché la Turchia tenga chiuse le sue frontiere alla massa dei rifugiati.

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Così, cogliendo il momento di evidente sbandamento della Russia impegnata in Ucraina in un’avventura ormai molto al di là delle dichiarate dimensioni iniziali, Erdogan s’è precipitato ad annunciare una nuova operazione militare al di là della frontiera con la Siria, e segnatamente in quella regione a Est dell’Eufrate dove i curdi siriani sono sempre vissuti, parte di quella minoranza sparsa su molte terre ma senza una patria, che rappresenta una macchia indelebile nella coscienza dell’Occidente.

 

L’obbiettivo che Erdogan si è ripromesso di conseguire sin dall’esplodere, nel 2011, della guerra siriana è quello di mettere in sicurezza, dal suo punto di vista, i 450 chilometri di frontiera con la Siria, su buona parte dei quali è presente la popolazione curda. Presenza che s’è rivelata imprescindibile anche per la salvaguardia degli interessi americani e occidentali nella regione, quando questi interessi rischiarono di esser spazzati via dall’insorgere del Califfato islamico che pose a Raqqa, non lontano dalla frontiera Nord, la sua capitale siriana. L’altra era a Mosul, in Iraq.

 

Se la guerra contro l’Isis è stata vinta e Raqqa riconquistata, seppure ridotta in macerie, e le città e i villaggi curdi sono stati liberati, questo si deve alle Unità di Protezione Popolare (Ypg), il braccio armato del movimento indipendentista curdo siriano, legato al gemello Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) principale forza separatista del kurdistan turco. Durante la guerra all’Isis, mossa dalle forze alleate raccolte sotto l’ombrello militare americano, lo Ypg, assieme ad altre milizie sunnite, rinominate Forse Democratiche Siriane (Sdf) hanno rappresentato la fanteria della forza militare militare schierata contro lo Stato Islamico.

 

Ma per Erdogan, Ypg e Pkk non sono altro che terroristi, giudizio condiviso anche da Stati Uniti e Unione Europea. E contro queste milizie “terroriste”, il presidente turco ha mosso guerra nel 2016, con l’operazione Scudo dell’Eufrate; nel 2018, con l’operazione Ramo d’Olivo; e nel 2019 con l’operazione Primavera di Pace che è consistita nella creazione di un primo tratto della “fascia di sicurezza” lungo il confine, sotto il naso compiacente degli americani. Dopo esser stati utilizzati come combattenti, i curdi furono infatti abbandonati da Trump al loro destino.

 

Adesso, Erdogan vorrebbe completare l’opera, aggiungendo altre decine di chilometri alla sua “zona di sicurezza”, ma in modo da farla per sempre finita con i curdi. Come? Costringendo la popolazione del Kurdistan siriano ad emigrare altrove e insediando al suo posto qualche milione di rifugiati, arabi. Una gigantesca pulizia etnica.

 

Contro la quale si sono già espressi la Russia, la Siria ovviamente, e l’Iran, che qualche giorno fa in un incontro della Piattaforma di Astana a Nur Sultan, in Kazakistan, hanno manifestato l’impegno, non si sa con quanta determinazione, a salvaguardare l’«integrità territoriale della Siria». E questo mentre Erdogan ha già schierato i primi cinquemila uomini lungo il confine e Israele bombardava l’aeroporto civile di Damasco rendendolo inservibile.