Le guerre dimenticate
Zerocalcare: «I curdi sotto le bombe di Erdogan sono scomparsi dalle news. Ma la situazione è tragica e ci riguarda»
Sconfitto l’Isis, concentrati su Kiev, dimentichiamo il dramma di curdi ed ezidi e le mire del leader turco sull’area. Il fumettista riaccende i riflettori su questo dramma: «Quello che arriva dalla Siria bene o male ricade ancora su di noi, ma non fa audience»
In Ucraina a metà aprile le truppe russe hanno cominciato ad ammassarsi nel Donbass, per cominciare quella che si prevede ancora oggi sarà una lunga contrapposizione con l’esercito ucraino. Negli stessi giorni la Turchia ripeteva operazioni militari diventate ormai quasi di routine nel nord Iraq: prima è toccato alle roccaforti del Pkk, poi alle comunità ezide. Sembra un duplice obiettivo ma in realtà si tratta di un unico disegno, ben più ampio.
Da un lato Erdogan vuole annientare il Pkk, dall’altro vuole cancellare quegli esempi di confederalismo democratico che, oltre ad essere un problema politico, sono anche impedimenti territoriali per le mire egemoniche di Ankara, cui fa gola il nord Iraq e il nord est siriano, il Rojava. Gli attacchi costituiscono la coda infinita di una guerra che i nostri occhi sembrano non vedere più, attirati - a ragione - da una guerra che sentiamo vicino a casa.
Ma se si guarda una mappa, Kobane non è molto più a est di Kiev, si tratta di un migliaio di chilometri di differenza. Le distanze territoriali sembrano inoltre scomparire se evochiamo alcuni nomi: Mosul, Raqqa, Kobane, città divenute simbolo della conquista - quella sì fu rapida e letale - di quello Stato Islamico che per anni prima della pandemia è stato il nostro principale oggetto di discussione. E dire Isis significa dire Bataclan di Parigi, la passeggiata di Nizza, la rambla di Barcellona e le distanze a quel punto si annullano definitivamente. Le zone alle quali punta Erdogan sono abitate da popolazioni che contro l’Isis hanno combattuto e vinto, istituendo poi sistemi di governo innovativi basati su tre direttrici principali: democrazia e autogoverno, parità di genere, sostenibilità.
Il confederalismo democratico ha saputo inoltre uscire dalla propria zona “originaria”, il Rojava, per contaminare anche il nord iracheno e la popolazione ezida, quasi sterminata dall’Isis ma in grado di liberarsene e sperimentare una nuova forma di convivenza politica e sociale. Questo è il quadro di una situazione in divenire, fortemente compromessa dalle mire di Erdogan e in uno stato di guerra continua da anni. Ed è il pensiero che mi ha accompagnato a incontrare Yilmaz Orkan, il responsabile di Uiki-Onlus, Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia e Zerocalcare, fumettista che da anni racconta questa zona di mondo e la sua rilevanza. Li incontro all’Ararat, il centro socio-culturale curdo di Roma e seduti nell’ampio spazio di fronte all’ingresso, potremmo sembrare dei giocatori di carte alla ricerca di ombra in una giornata romana dal sapore estivo. Al posto delle carte c’è il tè e la voce di Yilmaz Orkan a squarciare il silenzio che segue le presentazioni.
Partiamo dagli ultimi attacchi contro la comunità ezida nel nord iracheno: «Gli ezidi come a Kobane hanno creato una forza di autodifesa, perché così si sentono sicuri che se Isis e altri eserciti dovessero attaccare potranno difendersi. Il 9 ottobre 2020 Turchia e Iraq in sostanza trovarono un accordo per cacciare le forze di autodifesa, per fare crollare l’autonomia ma non sono mai riusciti a farlo. Nonostante questo, i turchi con i droni hanno già attaccato moltissime volte».
La Turchia, secondo esercito della Nato, con un Erdogan scaltro a tenere avvinghiata a sé l’Europa per la questione migranti. Nonostante sia stato definito più volte un dittatore. E se in questo momento la terza Roma bombarda l’Ucraina, la seconda non sta con le mani in mano. Secondo Orkan il 2023 non sarà un anno tranquillo per questa parte di mondo: «Intanto Erdogan, date le difficoltà economiche interne, cerca un diversivo. Per prima cosa sulla questione migranti, per i quali ha preso molti soldi dall’Unione europea (l’accordo risale al 2016 e prevedeva due tranche per un totale di sei miliardi di euro, ndr) senza creare le adeguate strutture e un piano sociale. Così oggi i circa 7-8 milioni di migranti, non solo siriani, anche afghani, bengalesi, yemeniti, pakistani, africani, sono diventati un problema specie nelle grandi città turche come Istanbul, Ankara, Smirne.
E allora di recente ha deciso di mandare un milione di questi migranti nelle zone del nord della Siria conquistate. Ma è chiaro che l’obiettivo è il Rojava e nel 2023 scadono gli accordi di Losanna (post seconda guerra mondiale, con la Turchia che rivendicava il Rojava come proprio territorio, senza ottenerlo, ndr). Ma il disegno è più ampio: avere l’appoggio occidentale per riprendersi la zona che va da Aleppo al Rojava, a Mosul e Kirkuk (in Iraq, ndr). Erdogan vuole mettere le mani sul petrolio che si trova in alcuni di quei territori. È esattamente quello che sta facendo con un ricatto nei confronti della Nato che potrebbe funzionare: se mi aiutate, dice Erdogan, io poi posso aiutarvi a gestire l’Iran».
A proposito di Nato, nelle scorse settimane, Erdogan si è detto contrario all’ingresso di Finlandia e Svezia perché ospiterebbero «criminali del Pkk». In Finlandia, spiega Orkan, «al massimo abbiamo 30mila curdi in gran parte iracheni e iraniani, in Svezia ci sono 250mila curdi, sei deputati in Parlamento sono curdi. Ma sono arrivati lì negli anni ’80 e la Turchia sa molto bene che in Europa il Pkk non c’è. E in più il Pkk oggi è un partito politico ideologico e non di guerriglieri anche se ancora è inserito nella lista nera degli Stati Uniti».
La Turchia e i cortocircuiti occidentali non hanno a che vedere solo con le risorse. Conta anche l’esempio, come quello ezida di Shengal la cui rilevanza in termini politici viene sottolineata da Zerocalcare: «Il punto più rilevante è che noi parliamo spesso di Kurdistan con riferimento al confederalismo democratico del Rojava; gli ezidi sono l’esempio che questo sistema non funziona solo con i curdi e può costituire un faro di speranza per tutto il Medio Oriente, perché Shengal dimostra che quelle teorie possono funzionare anche con popolazioni che non hanno storicamente legami con Ocalan o con le comunità curde. In più spariglia le carte, dimostrandoci che ci sono vie di uscita anche per situazioni che hanno finito per incancrenirsi».
La capacità di adattamento, unita a una posizione politica alla ricerca di un’autonomia anche all’interno di entità statali federali e non di una «indipendenza», permettono inoltre di evitare abbracci con il nazionalismo, concetto che nel tempo rischia di diventare ambiguo. Ma il tempo scorre, la guerra non si ferma e il sistema deve evolversi. Per questo in Rojava di recente si parla di un nuovo «contratto sociale».
«Il confederalismo democratico si sta rinnovando. È nato e si è sviluppato durante una guerra, c’erano esigenze diverse e difficoltà diverse. Oggi va aggiornato, le cose sono cambiate, ci sono 5 milioni di persone da gestire ormai, c’è da organizzare la vita quotidiana: la vita economica, il municipalismo, l’autodifesa, i diritti dei cittadini, parlo di sanità, educazione (verrà aperta una università), cibo, casa e lavoro. C’è anche la giustizia: al momento ci sono dei tribunali per le donne e dei tribunali per tutti; ora potranno entrare maggiormente nei dettagli, perché non si tratta di una zona omogenea dal punto di vista religioso, culturale. E non è detto che questo contratto sarà l’ultimo, anzi, ne seguiranno altri perché il processo di adattamento e di correzione è costante. Tutto parte da un’idea socialista che prevede il mercato però; chiamiamolo marxismo del ventunesimo secolo basato sulla partecipazione diretta», dice Orkan.
Come mai tutto questo è come scomparso? Secondo Zerocalcare si tratterebbe di «una situazione dopata dall’informazione; quello che succedeva in Siria ci riguardava da vicino per le ricadute dirette in Europa tra attentati e migranti, ovvero i temi delle nostre campagne elettorali. Il problema è che poi l’informazione da una parte consuma tutto molto velocemente e poi bisogna passare a qualcos’altro che tenga la tensione alta, tutto deve sempre sembrare una novità, deve sempre sembrare che siamo alle porte di qualcosa di mai visto. Il risultato è che però sostituiamo una bandierina con l’altra. I curdi per un periodo sono stati gli eroi dell’Occidente e venivano portati in palmo di mano. Quella cosa è archiviata e ora abbiamo Zelenzky e gli ucraini, poi probabilmente a un certo punto anche questa guerra, magari durando a lungo, esaurirà la sua funzione sul mercato e ci si occuperà d’altro. È che quando noi decidiamo di chiudere il sipario su uno scenario non è che sparisce tutto. In questo momento nei territori di cui stiamo parlando la situazione è anche più tragica di prima. C’è un enorme divario tra il secondo esercito della Nato e il Rojava, più ampio di quello precedente con l’Isis. È qualcosa che ci riguarda ancora più da vicino di prima perché tutto quanto riguarda i rapporti economici, i migranti o la Turchia stessa che a un certo punto si è posta come mediatrice della guerra in Ucraina. Quello che arriva dalla Siria bene o male ricade ancora su di noi, ma non fa audience. Lo sforzo da compiere è capire come riuscire a spiegare che tutto è collegato, continuando a tenere alta l’attenzione sulle guerre che non sono per niente finite».
Come ad esempio nel Kurdistan turco, come ricorda Orkan, dove Ankara continua a commissariare i comuni gestiti dal partito curdo Hdp e a reprimere in ogni modo la rappresentanza politica dei curdi. O come un esempio recente ci ha riempito gli occhi: la Palestina. L’omicidio della giornalista Shireen Abu Akleh e poi le cariche della polizia israeliana al suo funerale ci hanno ricordato quanto accade in Palestina a pochi giorni dal ricordo della Nakba («la catastrofe»).
Per Yilmaz la soluzione ci sarebbe: «Due mesi di sanzioni come quelle inflitte alla Russia a Israele e Turchia e molti dei problemi di cui parliamo sparirebbero. Ma come detto non c’è la volontà di risolvere i problemi, anzi sembra ci sia sempre bisogno di crisi e conflitti». Per Zerocalcare «questi eventi quando accadono diventano una spia di situazioni che durano da tempo e di cui, in questi casi, si possono accorgere tutti, talmente sono evidenti. In questo caso specifico sono la spia della violenza quotidiana di una occupazione che si tende a dimenticare».