Diritti
«Vogliono controllare i nostri corpi, non difendere la vita»: chi resiste negli Stati Uniti dopo la sentenza contro l’aborto
L’incubo dopo la sentenza no-choice getta il Paese nel caos. E ora gli attivisti puntano a punire anche chi le aiuta e si teme per l’uso dei dati e delle app
«Mi sembra pazzesco anche solo raccontarlo, ma è necessario per capire che clima stia vivendo oggi il nostro Paese: ho appena finito una riunione con i dirigenti di una compagnia aerea che volevano sapere se da oggi il personale avrebbe dovuto verificare con i passeggeri i motivi per i quali stavano lasciando lo Stato. Ci sono legislatori che stanno cercando di approvare leggi che vietino alle donne di attraversare i confini per abortire dove è ancora legale farlo». Da Houston la senatrice democratica statale Carol Alvarado racconta al telefono il momento di confusione e paura in cui è piombato il Texas a seguito dalla decisione della Corte Suprema, lo scorso 24 giugno, di annullare la storica Roe contro Wade, la sentenza che dal ’73 garantiva a livello federale il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza alle donne americane, e di lasciare tutto nelle mani dei singoli Stati.
Se gli Usa sono tornati indietro di cinquant’anni, in Texas potremmo dire addirittura di quasi cento. Qui infatti «dove avevamo già alcune tra le leggi più restrittive del Paese», puntualizza Alvarado, ne è stata riesumata una del 1925 che oltre a vietare gli aborti, prevede il carcere per coloro che li praticano. Nonostante al momento non si contempli l’eventualità di un arresto, «è chiaro che si tratti di una crociata», denunciano gli attivisti. Essendo il secondo Stato più popoloso dell’Unione, ciò che accade in Texas è rappresentativo di quella fetta d’America, a maggioranza repubblicana, che da 49 anni aspettava l’affossamento di Roe per poter vietare l’Ivg all’interno dei propri confini.
Sono passate quasi tre settimane da quando i saggi della Corte si sono espressi con 5 voti a favore e 4 contrari al ribaltamento. Una risoluzione anticipata settimane prima da una fuga di notizie senza precedenti. Il fatto che ogni Stato potrà decidere in autonomia, rende molto complicato tracciare il quadro di questi Usa post-Roe. L’impressione è quella di una nazione immersa nella confusione assoluta. Se è vero che metà del Paese, quella a guida democratica, più progressista e liberale, continuerà a blindare il diritto all’aborto, quello che sta accadendo nell’altra metà è ancora difficile da codificare.
Si tratta di un limbo legale che getta nel caos pazienti, cliniche e medici. Un puzzle di leggi, di proposte di leggi antiabortiste, con restrizioni, tempi e sanzioni diverse. Molti Stati avevano già in canna le cosiddette «trigger laws», pronte a diventare effettive appena i giudici avessero affossato la sentenza del ’73. Alcune di queste leggi dovranno attendere trenta giorni dalla sentenza, altre sono state bloccate da tribunali locali a seguito di denunce o aspettano di venire certificate. Ad esempio in South Dakota, Louisiana e Kentucky, subito dopo il rovesciamento della sentenza, l’interruzione di gravidanza è automaticamente diventata illecita, anche in presenza di incesto e violenza. Negli ultimi due Stati, però, sono state intentate cause per bloccare l’applicazione delle leggi, ora temporaneamente paralizzate. Nel tentativo di aiutare la gente a capire cosa stia succedendo a casa loro, i media americani propongono mappe aggiornate in tempo reale che indicano gli Stati in cui l’aborto è legale, illegale, potenzialmente illegale o a breve illegale.
Non sono mancate scene di panico davanti alle cliniche, perché subito dopo il pronunciamento i medici avevano smesso di lavorare per paura di essere incriminati. Tra i milioni di donne lasciate allo sbaraglio, pure una bambina di dieci anni. Vittima di abusi, è stata costretta ad andare in Indiana ad abortire, perché dove risiede, in Ohio, è entrata immediatamente in vigore una restrizione che proibisce l’interruzione dopo la sesta settimana. Nessuna eccezione, neanche per la piccola, in attesa da sei settimane e tre giorni.
In questa parte del Paese, la confusione genera paura. Così, dopo quasi mezzo secolo, stigma e pregiudizio riconquistano la scena. Il movimento pro choice cerca di fare muro in ogni modo possibile. Prima di tutto con campagne che puntano a mobilitare la gente, a farla votare in massa alle elezioni di metà mandato a novembre; mentre nel quotidiano si raccolgono fondi, si creano siti appositi per diffondere informazioni, denunciando le leggi anti abortiste.
Nel settore privato tante aziende - incluse Amazon e Netflix - si sono rese disponibili a coprire le spese delle dipendenti che saranno costrette ad attraversare i confini. Google, invece, si è impegnata a cancellare in automatico i dati di geolocalizzazione degli utenti che visiteranno luoghi sensibili come ad esempio una clinica dove viene praticato l’aborto. La privacy è infatti ora al centro del dibattito. E a preoccupare ora sono anche le comuni applicazioni che tracciano il ciclo mestruale.
«I pro life non vogliono difendere il concetto di vita. Stanno solo cercando di controllare le donne, ancora una volta», dice indignata Benny Del Castillo, presidente del DC abortion fund, con sede a Washington, che offre sostegno finanziario alle donne indigenti che scelgono di interrompere la gravidanza. «Pochi giorni prima della sentenza sull’aborto, la Corte ha deciso che a New York per andare in giro armati non serva una licenza; non mi sembra che i giudici siano preoccupati di salvaguardare le vite delle persone se si rifiutano persino di proteggere i bambini dalle sparatorie nelle scuole. Invece vogliono controllare il nostro corpo».
La sua organizzazione si prepara al boom di richieste già in arrivo dagli Stati repubblicani. «Le donne hanno sempre abortito e continueranno (in Usa una donna su quattro abortirà comunque entro i 45 anni, ndr). C’è chi lo farà clandestinamente, con rischi enormi e spesso tragici; c’è chi sceglierà di viaggiare. Purtroppo i tempi di attesa si dilateranno, con gravissimi disagi». A pagare, ancora una volta, non saranno le donne benestanti delle classi medie e alte. «Saranno le minoranze, le indigenti, quelle che non possono permettersi biglietti aerei, assenze dal lavoro, hotel, babysitter, oltre ai costi della procedura». Ecco perché associazioni come la sua sono fondamentali, oggi più che mai. «In pochi giorni abbiamo raccolto trecentomila dollari. La comunità c’è e si fa sentire».
Quel che inquieta Del Castillo è la zona grigia normativa. «I nostri volontari vanno protetti perché il quadro legale è incerto. Politici e gruppi pro life cercano di intimorirci, paventano arresti per chi aiuta le donne ad abortire negli Stati democratici. Tutti potenzialmente potrebbero essere complici di un reato, persino il pilota che trasporta queste persone da uno Stato all’altro».
Il quadro in realtà è incerto anche perché disomogeneo è altresì il movimento antiabortista, uscito vittorioso. Se infatti la maggioranza dei pro life ha come obiettivo il divieto dell’aborto, una frangia di estremisti invoca la criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza, equiparandola all’omicidio e considerando per questo la donna colpevole, tanto da proporre in alcuni casi addirittura la pena di morte. Sebbene, come ricorda il New York Times, questi gruppi siano malvisti finanche dalla fascia mainstream dei conservatori, negli ultimi anni hanno guadagnato terreno, alimentati dalla destra religiosa fondamentalista e non estranea alle manifestazioni più violente. Aiutati, inoltre, dall’attivismo social e dall’appoggio di Trump che nel 2016 ipotizzò «qualche forma di punizione» per le donne. Non solo provocazioni: secondo i dati del National advocates for pregnant women, dal 2006 al 2020, circa 1.300 donne hanno subito arresti o accuse.
«Il movimento antiabortista strumentalizza il cristianesimo; afferma di agire in nome di Dio, ma l’agenda politica riguarda controllo e potere», sottolinea da Apex, nella Carolina del Nord, la reverenda battista Katey Zeh, a capo della Religious coalition for reproductive choice, un’organizzazione per il diritto di aborto. «La narrazione dominante è in effetti quella secondo cui tutte le persone di fede siano contrarie, ma non è così. Tanti come me appoggiano la libertà di scelta. Mi rincuora che il presidente Biden, molto cattolico, abbia detto che proteggerà chi avrà bisogno di attraversare i confini statali per ricevere assistenza», dice.
«I giorni bui vissuti da mia nonna evidentemente non sono ancora passati», sbotta Alexander Sanger, attivista ma soprattutto nipote di Margaret Sanger, l’infermiera che nel 1916 fondò Planned parenthood, la più famosa e importante organizzazione di cliniche ginecologiche degli Stati Uniti, a cui migliaia di donne si rivolgono ogni anno. Una rete di oltre seicento centri, che provvede a quasi il 40 per cento degli aborti praticati in America, oltre a fornire supporto legato a contraccezione e screening ginecologici. «L’impegno non cambia, nonostante la sentenza. Tutte le cliniche sono rimaste aperte. Al momento stiamo lavorando a portali che permettano alle donne di individuare il posto più vicino in cui interrompere la gravidanza legalmente. Stato per Stato, stiamo contestando le leggi locali. Ogni giorno in più in cui riusciamo a tenerle bloccate è un successo». Perché quel giorno i medici potranno lavorare e le donne avere diritto a un aborto legale e sicuro.