Il 25 luglio si vota la nuova Costituzione ultra presidenziale voluta da Kais Saied, che da un anno ha assunto il pieno controllo del Paese. È l’atto finale che seppellisce le speranze nate con la Rivoluzione dei gelsomini

Nei ritmi lenti di Tunisi dove la vita quotidiana viene scandita principalmente dalle temperature a tratti insopportabili e da un clima allegro legato alla festa del sacrificio dell’Eid al-Adha, c’è un particolare che emerge in un Paese che si presta a porre fine a undici anni di democrazia: la totale assenza di qualsiasi propaganda elettorale.

 

Nelle lunghe strade trafficate della capitale, nelle vie principali o nelle piazze che nel 2011 videro migliaia di persone invocare la fine del regime autoritario di Zine El-Abidine Ben Ali, del referendum costituzionale previsto il prossimo 25 luglio non c’è traccia. Eppure si tratta di un appuntamento destinato a cambiare profondamente gli equilibri del piccolo Stato nordafricano per i prossimi decenni. I tunisini sono chiamati a votare una nuova Costituzione dopo quella promulgata nel gennaio 2014 a seguito della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini.

 

All’epoca, il testo venne accolto come «il più democratico e aperto del mondo arabo». Oggi viene messo in discussione a favore di un progetto ultra presidenziale, pensato e proposto da un uomo che da un anno esatto ha il controllo totale sulla Tunisia: il presidente della Repubblica Kais Saied. Sconosciuto ai più fino alle elezioni del 2019, è stato eletto sulla scia di una crisi politica ed economica strutturale che ancora oggi sta interessando il Paese.

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Una crisi tangibile, dalle regioni più ricche della capitale e della costa a quelle più marginalizzate dove iniziarono le proteste di massa del 2011. Il Mercato centrale di Tunisi rappresenta l’epicentro del deterioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione. I prezzi nel corso degli anni sono aumentati a vista d’occhio, lo si nota passando dalle bancarelle del pesce a quelle della carne diventati ormai prodotti di lusso. Il malcontento dei tunisini è diffuso e mitigato soltanto da una persona: Kais Saied. «Sono contento della nuova Costituzione, il nostro presidente ha fatto bene. Gli ultimi undici anni sono stati catastrofici, la gente qui fatica a mangiare. Ci sono ancora dei problemi da risolvere ma la direzione è quella giusta», sono le parole di Bechir Marzouk, in pensione dopo una vita di lavoro in Francia e impegnato a fare le ultime compere prima che il Paese si fermi per l’Eid al-Adha.

 

Sguardo glaciale, linguaggio del corpo serioso e distaccato, nonostante i suoi 64 anni e un passato da docente di diritto costituzionale all’università La Manouba di Tunisi, Saied è il volto nuovo della politica tunisina. Nel 2019 si assicurò le elezioni e un posto al sole al palazzo di Cartagine, sede della presidenza della Repubblica, grazie a una campagna estremamente sobria e chiara: lotta alla corruzione, aiuti alle fasce più povere della società, lotta ai partiti che avevano impoverito la Tunisia e una nuova forma statale che desse più centralità alle regioni svantaggiate ma con una leadership forte basata a Tunisi. Dopo due anni di aperti contrasti con il governo di Hichem Mechichi e sull’onda lunga di una crisi sanitaria ed economica che stava travolgendo il Paese, il 25 luglio 2021 con un colpa di forza arbitrario il presidente della Repubblica ha sciolto l’esecutivo, appoggiato dal partito di ispirazione islamica Ennahda, congelato il Parlamento e di fatto cominciato a governare con pieni poteri dopo l’applicazione dubbia dell’articolo 80 della Costituzione del 2014 che permette di imporre misure eccezionali al Paese in momenti di «pericolo imminente per la sicurezza dello Stato».

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Da allora ha programmato un referendum costituzionale il 25 luglio ed elezioni anticipate il 17 dicembre 2022, anniversario dell’immolazione di Mohamed Bouazizi nel 2010 che diede il là alle cosiddette Primavere Arabe in gran parte del Nord Africa e Medio Oriente. In seguito ha nominato un governo senza poteri reali, ha azzerato il Consiglio superiore della magistratura, arrestato attivisti, rappresentanti dei partiti politici con cui era in contrasto e imposto le dimissioni a 57 giudici.

 

Il 30 giugno Saied ha ufficialmente presentato la nuova bozza costituzionale. «Quello che sorprende in questo testo non sono i riferimenti all’Islam o al ruolo della famiglia, i quali sono stati tolti dall’articolo 1 e posizionati in altre parti per non scontentare partner regionali come gli Emirati Arabi Uniti o l’Arabia Saudita. Mi stupisce che ci siano articoli sulla disciplina parlamentare, i deputati saranno controllati da vicino. Dal 25 luglio il presidente avrà in mano tutti i poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario. Sarà al centro di tutto e preponderante nella nomina delle istanze di controllo», commenta Vincent Geisser, islamologo e politologo francese.

 

Kais Saied diventerà così il capo supremo delle forze armate, potrà definire la politica generale dello Stato, nominare il governo senza approvazione del Parlamento e proporre testi legislativi che dovranno essere esaminati «con priorità assoluta». Nonostante l’inserimento di un’Assemblea nazionale delle regioni oltre al Parlamento già in essere, emerge il ruolo estremamente ridotto che avranno le due Camere.

 

La vibrante società civile formatasi dopo la cacciata di Ben Ali nel 2011 ha reagito preoccupata temendo per il proprio futuro. La popolazione invece rimane a favore della riforma presidenziale, come testimoniano le parole di Ibrahim Sayah, fruttivendolo da 30 anni al Mercato centrale della capitale: «Cos’altro poteva fare il nostro presidente? Sono dieci anni che ci parlano di Rivoluzione ma non c’è mai stata in Tunisia. C’è una crisi economica mondiale e i nostri partiti non hanno fatto niente. Qui i prezzi sono aumentati e la colpa è solo degli islamisti».

 

Gli islamisti di cui parla Ibrahim Sayah hanno un nome e un volto molto chiaro: si tratta del partito Ennahda, il quale si ispira alle posizioni dei Fratelli musulmani, guidato dall’ex presidente del parlamento Rached Ghannouchi. Una forza politica che dalla cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2011 è stata al centro degli equilibri istituzionali del Paese e considerata la prima causa del degrado economico della Tunisia. Oltre a una forte richiesta di democrazia, i tunisini si aspettavano importanti miglioramenti da un punto di vista economico e una maggiore dignità sociale che non sono mai arrivati. Anzi. Dal 2011 le casse dello Stato si sono progressivamente svuotate, il tasso di disoccupazione ha superato il 16 per cento e la guerra in Ucraina ha impattato enormemente sul tasso di inflazione e l’importazione di materie prime come il grano. Per questo motivo il governo di Najla Bouden Romdhane nominato da Kais Saied ha approfondito i colloqui ufficiali con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per una nuova linea di prestiti da 4,2 miliardi di dollari, la quarta in pochi anni: «In Tunisia c’è una crisi strutturale legata al modello di sviluppo che è in corso da 30 anni. Recentemente ci sono stati due shock esterni, la crisi sanitaria e l’invasione in Ucraina della Russia. Quello che è determinante oggi sono i negoziati con l’Fmi. Dalle bozze che sono uscite, il governo sta trattando su un piano economico che non conosce nessuno. Si prevede un congelamento delle assunzioni nella funzione pubblica, la sospensione dell’aumento dei salari e una progressiva cancellazione delle sovvenzioni statali sugli idrocarburi e i beni di prima necessità a favore di aiuti mirati alle fasce più povere. A perdere sarà soprattutto la classe media che sta già soffrendo molto. L’impatto sarà enorme», è l’analisi di Amine Bouzaiene, economista dell’osservatorio democratico Al Bawsala.

 

Il presidente della Repubblica è dunque chiamato a rispondere urgentemente alla crisi economica del Paese, il vero fattore di instabilità che promette di riportare i tunisini a manifestare, come conclude il politologo Geisser: «La forza del presidente è la debolezza degli attori politici. I partiti che sono stati esclusi in quest’ultimo anno non hanno la capacità di unirsi a protestare. Il regime che si sta creando non è aperto a negoziare. Nei prossimi mesi la disillusione della popolazione potrebbe incontrare una risposta securitaria e di repressione da parte dello Stato».

 

Oggi il consenso di Kais Saied rimane alto, attorno al 70 per cento, e il responsabile di Cartagine è visto dai tunisini come l’ultima ancora di salvezza. Al netto della repressione già in corso nel Paese, la politica e i diritti civili in questo momento sono diventati un aspetto secondario rispetto all’urgenza legata all’economia. Tuttavia, sempre al Mercato centrale di Tunisi, c’è chi mostra reali inquietudini riguardo al futuro della Tunisia. Come denuncia Amani Mkaouer, attivista per i diritti umani in una Ong locale: «Siamo molto spaventati, da quello che vediamo e leggiamo, il rischio è di entrare in una nuova dittatura. Io sono già stata arrestata dalla polizia durante le proteste del 2021. Le persone hanno paura che tornino gli islamisti e temono per le proprie condizioni economiche. Non penso che abbiano capito che a rischio c’è il futuro democratico della Tunisia».