Reportage
La frontiera dell’Europa è il deserto africano: «Le milizie sono pagate con fondi Eu per respingerci»
Il Marocco sta diventando la nuova Libia, ponte verso il continente: e quanto successo a Melilla lo dimostra. Ma i flussi vengono già bloccati prima, nel Sahel, con la solita spietatezza. Mentre la crisi del grano mette in ginocchio tutto il Continente
«Ho provato a scalarlo varie volte quel muro di ferro alto 9 metri, ma venerdì ho rinunciato e forse mi sono salvato la vita». A Nador, città portuale sulla costa del Marocco, a due passi dall’enclave spagnola di Melilla, ha piovuto per qualche minuto.
Per questo, l’incontro con Makan, 22 anni e originario della Nigeria, si svolge in un bar al chiuso. È scosso per la morte di 37 migranti che venerdì 24 giugno hanno provato a scavalcare il muro. Sono precipitati, sono stati picchiati, alcuni sono morti soffocati. E ora la sezione di Nador dell’Association marocaine des droits humains chiede che si apra un’indagine seria per l’accaduto. È la prima volta da anni che accade una tragedia simile e forse non è un caso. Il vicepresidente, Omar Naji ci aveva accompagnato in macchina lungo la barriera di metallo, solo poche ore prima che si scatenasse l’inferno. Ed è proprio da Nador, dalle coste del Mediterraneo, che abbiamo imboccato la rotta dei migranti per arrivare fino al deserto algerino. E vedere cosa succede, quali sono gli effetti della crisi del grano bloccato in Russia e se ci sono davvero indizi di un incremento dei flussi verso l’Europa.
Lungo la strada da Nador verso Oujda, nonostante il caldo, ci sono gruppi di uomini e donne che camminano per arrivare al mare. E ci sono bimbi che giocano a calcio. «Sono tutti minori non accompagnati, ma non ci sono abbastanza fondi per gestirli tutti, sono aumentati negli ultimi mesi», spiega il volontario che ci accompagna. Il Marocco, infatti, di recente è diventato meta di un gran flusso di migranti sub-sahariani, molti più di prima, perché le rotte desertiche verso Tripoli sono diventate troppo rischiose.
Il Marocco potrebbe diventare la nuova Libia. A confermarlo è Jamila Berkau, responsabile del progetto Afrag. A Oujda si occupa della prima assistenza ai migranti che arrivano. La cittadina è solo a pochi km dal confine algerino ed è diventata molto povera da quando la frontiera tra i due Paesi è stata sbarrata. Mentre prima viveva di commercio e turismo, oggi vive di mercato nero e traffici illeciti, anche di esseri umani. I migranti arrivano a piedi lungo il deserto, dopo un viaggio di mesi e mesi, come Aminata, arrivata con i figli dalla Guinea Bissau. «Mi hanno stuprato due volte e tutte e due le volte sono rimasta incinta», sussurra. Il frutto della sua violenza ha il volto di un bimbo di nove mesi che tiene in braccio con amore. «Hanno abusato di me la prima volta a casa mia, perché c’è una guerra etnica e la mia tribù dicono sia malvagia, l’ultima volta è stata in Niger». Hanno ucciso gran parte della sua famiglia e non sapeva cosa fare.
Insieme a lei, nella stanza dell’’associazione Afrag c’è anche Zalika, arriva dal Mali. Durante il suo viaggio verso il Marocco è stata torturata e picchiata così tanto che all’arrivo i volontari hanno dovuto portarla in ospedale. È ancora sotto shock. Nonostante il caldo, si avvolge e si nasconde dentro un pile rosa. Quando era a poche miglia dal Marocco, un gruppo che si è spacciato per attivisti si è fatto pagare per portarla in un centro. Peccato però, che il centro fosse finto e che arrivata lì le abbiano chiesto altri soldi prima di rispedirla, come un pacco, indietro nel deserto. Non parla molto ma racconta di aver pianto tanto. Ora fa ancora fatica a sentirsi al sicuro. Ha solo 17 anni.
Mentre parla, arrivano quattro uomini, anche loro giunti da poco. Jamila li fa accomodare nella stanzetta. «Ormai la rotta più battuta verso l’Europa è quella che attraversa Ciad, Niger, Algeria e Marocco», spiegano i ragazzi. Arrivano rispettivamente da Sud Sudan, Camerun e Nigeria. Durante il cammino, hanno incontrato trafficanti di uomini e milizie che li hanno derubati e picchiati. «Alcuni dei ragazzi che erano con noi sono stati uccisi, altri sono morti di sete. Altri ancora, invece, sono stati feriti e abbandonati nel deserto a dissanguarsi ed essiccarsi», racconta David.
I loro volti dicono più delle parole. Sono stati dissetati e nutriti dall’associazione che ha dato loro anche vestiti nuovi e puliti. Ma i segni delle sofferenze li portano addosso, come una patina trasparente ma percettibile. Dai discorsi si intuisce che c’è qualcosa che non rivelano con chiarezza. Chi vi ha respinto in Ciad e Niger?, proviamo a chiedere. «Gruppi paramilitari pagati dal governo, ma con i soldi dell’Unione europea», spiega David. Interviene Jamila Berkau a chiarire, mentre i ragazzi temono di essersi esposti troppo e Aminata si agita. «Il Niger e il Ciad ricevono soldi dall’Italia provenienti dal Fondo Africa. E i governi locali impiegano quei fondi per pagare milizie che respingono i migranti», dice Jamila: «Ma lo fanno con ogni mezzo, cioè quasi sempre con brutalità».
Si chiamano accordi soft, cioè accordi che non seguono il classico iter normativo, vengono siglati da diversi organismi e agenzie e soprattutto non vengono pubblicizzati. In questo modo, l’Unione Europea esternalizza le sue frontiere, allarga sempre di più i suoi confini, affinché meno persone possibile riescano ad accostarsi alle coste del Mediterraneo. Ma a che prezzo?
«La verità è che noi non vogliamo andare via dalle nostre case, ma se c’è la guerra, c’è il terrorismo, veniamo massacrati, viviamo nel terrore, cosa possiamo fare?». Oluwa, 24 anni, ha studiato lingue e letterature europee: «È un istinto scappare, mettersi al sicuro, salvaguardare la propria specie, la stirpe o semplicemente la propria famiglia. Non fareste lo stesso?». La domanda resta nell’aria, come una freccia prima di colpire il punto dolente.
L’Europa respinge, non accoglie i profughi che arrivano da una certa parte di mondo e spende milioni e milioni in armamenti, mentre una parte dell’Africa non ha più cibo. Qualche giorno fa il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha annunciato che sospenderà gli aiuti alimentari in Sud Sudan, perché non ci sono più fondi. Proprio ora che, tra grano bloccato e cambiamenti climatici, l’Africa rischia la più grande crisi alimentare di tutti i tempi.
«La maggior parte dei Paesi africani dipende dal grano russo», racconta Fatima, volontaria di un’associazione per lo sviluppo dell’Africa: «Il Senegal dipende per il 66 per cento, la Somalia per il 70, la Tanzania per il 64, il Sudan per il 75, la Repubblica Democratica del Congo per il 69. E poi c’è chi dipende al 100 per cento dal grano russo, come per esempio il Benin. L’Africa dimostra tutta la sua grande fragilità con questa forte dipendenza dalle produzioni del nord del mondo».
Gli effetti della crisi alimentare non si vedono ancora, eppure i ragazzi che ho incontrato hanno raccontato che nelle ultime settimane c’è un fermento insolito nelle chat Telegram dei rispettivi Paesi. «Ci sono tantissime richieste di persone che vogliono partire e chiedono aiuto e suggerimenti», raccontano i ragazzi. Aminata conferma. Ormai in molte aree non c’è più cibo, non c’è acqua e i prezzi sono diventanti insostenibili per chiunque. «Arriveranno molte persone», ammette Fatima. Mentre si sventola con un quadernetto, guarda in alto a sinistra e riflette: «Vedremo i primi segni di un flusso intenso tra settembre e ottobre e ci saranno molti più arrivi verso l’Europa. Non solo verso la Spagna. Ci saranno più partenze anche via mare». Sarà una manna per i trafficanti di uomini, per i contrabbandieri e per chi fa affari con l’Ue.
Dopo che l’ultimo dei ragazzi è andato via, ci rimettiamo in cammino per arrivare nel deserto. Da Oujda verso Ain Sefra, al di là del confine algerino, lungo rotta che conduce nel Sahel, attraverso la valle del Saoura e del Tuat. La strada è impervia, desolata com’è ovvio che sia una strada nel mezzo del deserto e in alcuni tratti non c’è che la linea dell’orizzonte, tremolante per il caldo. A circa una trentina di km da Oujda, la guida si ferma e mostra un angolo di sabbia. «Questo lo chiamano il punto zero, perché è ormai la fine del viaggio e i migranti sanno che la città è vicina. Di solito si fermano qui, piangono e pregano per esser arrivati ormai a pochi km dalla meta. Vivi».
Ma lo chiamano il punto zero anche per un altro motivo. È proprio qui che Marocco e Algeria, abbandonano i migranti che vengono respinti, invitandoli a imboccare la strada nel verso opposto. Andando verso sud, c’è un gruppo in cammino. Alcuni sono scalzi ma hanno maglie a maniche lunghe e foulard o cappucci in testa, per ripararsi dal sole. Con loro c’è anche una ragazzina, è ferita in volto, l’hanno colpita dei trafficanti che volevano tenersela come schiava. È stato solo un caso che non ci siano riusciti. Mentre erano fermi al checkpoint improvvisato, tra due Toyota bianche a sbarrare il cammino, è arrivato un furgone a tutta velocità, per forzare il blocco. Gli uomini lo hanno rincorso e hanno lasciato libero il gruppetto. Il destino ha voluto che Nyamey arrivasse fino al confine con il Marocco. Giunti a una sessantina di chilometri da Oujda lungo il deserto, andare oltre diventa rischioso. È tempo di tornare indietro, al punto di partenza. A Nador si scavano le buche per seppellire i cadaveri dei migranti morti nel tentativo di superare la barriera di Melilla. Senza identificarli, senza nessuna pietà.