Dopo un anno di governo talebano l’economia è ferma. La povertà e la fame aumentano. Continua la discriminazione femminile. E c’è il timore che tutto possa crollare di nuovo

Sarai Shahzada, l’edificio della “borsa” di Kabul, è in fibrillazione già di primo mattino. La gente corre, urla, esce dagli uffici stracolmi. È il centro nevralgico dell’economia del paese. Zirack Abdul Rahman, il responsabile, è oberato. Si ferma un attimo per parlare: «Lo scorso 15 agosto, l’economia è collassata. Il sistema bancario era a terra, niente funzionava. Abbiamo dato una mano al nuovo governo per importare beni di prima necessità. È crudele ciò che l’occidente e gli americani hanno fatto al paese. Hanno messo a terra il popolo afghano, i commercianti, le donne, l’ambiente accademico. Questa è democrazia? Distruggere l’anima di un paese?».

Un anno è passato da quando i talebani sono tornati al potere. L’Afghanistan boccheggia, viaggiando a due velocità differenti. Kabul soffre ancora dei retaggi del cambiamento - unico centro dove alcune influenze esterne hanno cominciato a circolare - vivendo una situazione di paralisi economica e sociale e faticando ad abituarsi ai nuovi padroni. Molti talebani sono impreparati a una vita di città dopo anni passati in isolamento. Sono diffidenti. Ci vorrà tempo. Nel resto del paese, perlopiù rurale, si è sentito il collasso economico anche se non molto è cambiato rispetto a prima.

Haji Zirack è sincero. E non ha torto. Oltre a un’economia debole, le sanzioni e un governo non riconosciuto, il paese ha sofferto un “brain drain” difficile da digerire. La maggior parte di coloro che avevano conoscenze e studi, sono stati portati in occidente penalizzando ancora di più la ricostruzione. Tutti si scagliano solamente contro i talebani, quando anche la comunità internazionale porta grandi responsabilità. E tutti dimenticano che sono sempre gli afghani a pagarne le conseguenze.

«Cerchiamo di aiutare il governo, ma ora ci ascoltano sempre meno. Siamo frustrati ma sappiamo che cercano di lavorare per il paese, diminuendo la corruzione rispetto al governo precedente», continua Haji Zirack. I talebani stanno cercando di porre fine al commercio illegale di oppio e di legname pregiato. Ma è difficile quando la gente ha fame ed è mercato che fa gola a molti.

L’economia non gira. Tante persone hanno perso il lavoro, spesso creato da Ong occidentali, da istituzioni internazionali e dal governo precedente. E nessun nuovo posto di lavoro è stato creato. Uscire dalla dipendenza è difficile. I salari sono dimezzati per tutti e i prezzi si sono alzati. Molti non riescono ad avere abbastanza cibo, dipendendo dagli aiuti umanitari che scarseggiano.

«Se prima più del 70 per cento delle entrate dipendeva dal budget occidentale, oggi per la prima volta siamo autosufficienti. Lavoriamo per essere il meno dipendenti dall’esterno. Esportiamo tanto carbone e altre risorse. Ma i 9 miliardi congelati dagli Stati Uniti devono tornare qui. Il 30 per cento non appartiene allo stato ma ai commercianti afghani. È un crimine», commenta Abdul Rahim Habib, portavoce del Ministro dell’Economia.

A Kabul, come nel resto del paese ci si sveglia allontanandosi ogni giorno di più dai ricordi della guerra, della paura, dalle esplosioni e i raid che hanno terrorizzato tutti per quasi 20 anni. Gli attentati non sono terminati, vista la presenza di gruppi dissidenti. Ma sono casi isolati, spesso sono rivendicati dallo Stato Islamico, sempre più debole. Nel nord del paese e in Panshir invece, una resistenza irrisoria è tenuta sotto controllo.

Tuttavia, dopo l’uccisione del leader di Al-Qaeda al-Zawahiri - residente da tempo nel centro di Kabul - ci sono timori che tutto possa crollare di nuovo. Che una nuova guerra stia per cominciare e che ora gli Stati Uniti impongano sanzioni più dure. Molti si chiedono quale sia la vera relazione fra talebani e altri movimenti terroristici. Proprio quando l’Emirato Islamico sembra organizzarsi, riuscendo a portare quella sicurezza tanto agognata e un minimo di organizzazione statale, tutto sembra di nuovo in sospeso.

 

Il ritorno all’attualità di Al-Qaeda ha riportato a galla non solo i fantasmi del passato ma anche i problemi interni alla leadership del paese, divisa come non mai su più aspetti. Una lotta di potere, quella fra il network Haqqani (radicali e vicini ad Al Qaeda) e il clan Durrani - meno conservatore e aperto al cambiamento - che potrebbe anche incrinare le già fragili relazioni con l’occidente.

I talebani, inoltre, sono accusati a livello internazionale di non voler creare un governo inclusivo e di non rispettare i diritti umani. Con la scusa della sicurezza infatti, come dice una fonte anonima, «molte persone spariscono nel nulla, accusate di essere membri dello Stato Islamico». Ma non è confermato.

Ma il nodo più difficile da sciogliere fra chi ha imposto il proprio diktat per anni, l’occidente - volendo quasi ricattare il governo talebano e gli afghani in cambio di allentamenti delle sanzioni - e chi vuole difendere i propri valori culturali, è la questione femminile. Se le donne hanno un posto marginale nella società afghana, e fuori dalle città niente è davvero cambiato rispetto a 50 anni fa, dopo l’arrivo dei talebani, è soprattutto Kabul a sentire il contraccolpo. Molte ragazze hanno perso il posto di lavoro - sono tornate ai loro posti precedenti solo in ospedali, banche, in alcuni ministeri e le professoresse - e le adolescenti fra i 13 e i 18 anni ancora non possono tornare a scuola (anche se in alcune provincie e alcuni distretti tutto è stato riaperto).

Le ragazze dai 7 ai 13 anni e le studentesse universitarie invece, sono tornate normalmente sui banchi, sebbene con regole più «consone ai valori culturali afghani e alla religione islamica, che gli afghani mettono come priorità», come spiega il rettore dell’Università di Kabul Osama Aziz. Lo storico ateneo ha riaperto le porte a 12 mila ragazzi e 8 mila ragazze lo scorso 6 marzo. 3 giorni dedicati alle ragazze e 3 ai ragazzi. «Speriamo di ampliare gli spazi così da permettere a tutti di venire ogni giorno», continua il rettore.

È lunedì mattina. Uno dei tre giorni predisposti per le ragazze. Escono a gruppi, ridono e scherzano. Portano tutte l’Abaya, un lungo vestito nero. Sotto, i vestiti normali e tacchi. In testa un velo. Ma niente coperture aggiuntive (il burqa non è obbligatorio). Dietro le vesti nere, si cela la tristezza del cambiamento.

Fra loro c’è Marzia, studentessa di farmacia: «Ero incredula quando hanno riaperto l’università, non me l’aspettavo. Ma niente è come prima. Il nero rappresenta la sofferenza. I professori non ci considerano come prima. La sera prima di riprendere gli studi mi sono chiesta cosa farò dopo se non potrò lavorare. I talebani hanno distrutto i nostri sogni». Vicino a dove vive, nel quartiere popolare di Dasht-e-Barchi, ci accoglie in un piccolo appartamento umido e caldo. Le finestre sono velate. L’entrata è una qualsiasi. Ma all’interno, decine di ragazze entrano ed escono. In una piccola stanza, una lavagna è stata attaccata al muro. Impartisce una lezione di inglese a delle giovani ragazze. Con lei sembrano distrarsi. Marzia è molto solare, prova a tirare su il morale ma avverte: «Se i talebani ci scoprono, ci farebbero chiudere».

Marzia e sua sorella Zahra si sono assunte il compito sin dall’epoca della pandemia di istruire le ragazze. «Se non potevano studiare per motivi finanziari, ora fra il 7 e il 12 grado non possono andare a scuola del tutto. Ci bastano libri, maestre e ragazze motivate. 3 materie al giorno più 3 libri da studiare in casa. Tutto qui. Se impediranno alle ragazze di continuare a studiare, le educherò io per farle passare il concorso universitario», continua Marzia. «Siamo forti e non riusciranno ad impedircelo».

Come quella di Marzia, centinaia di scuole informali hanno aperto in sordina. Difficile che i talebani non se ne siano accorti. Secondo alcune fonti, in alcuni casi ci sarebbe una sorta di accordo tacito.

Ma è proprio questo che crea una grande contraddizione, soprattutto dopo l’apertura delle università pubbliche anche alle ragazze, il che ha dato un po’ di speranza. «È un concetto non chiaro se visto dall’esterno: il leader supremo, Amir al-Mu’minin Haibatullah Akhunzada, decide tutto attraverso un consiglio di Shuyukh, leader religiosi. In questo consiglio ci sono personalità molto conservatrici che hanno più influenza di quelle di stampo più moderno. E nessuno osa toccarli. Così consigliano Akhunzada su quello che deve imporre», spiega il direttore di una grande università privata di Kabul. «Se la Sharia sostiene l’educazione femminile, significa che questo è un problema culturale afghano. Pensano che le ragazze nell’età adolescenziale siano facilmente manipolabili e che perderebbero i loro valori. Follia».

Ecco come nasce il caos, secondo il direttore: «Il ministro dell’Educazione superiore, per riaprire le scuole, ha ignorato il consiglio religioso. L’avrebbero bocciato. Mentre quello dell’educazione ha fatto quest’errore. Ecco perché in alcune province hanno riaperto anche alle adolescenti, perché seguono prima la Sharia e non quello che viene loro detto dal consiglio».

«L’Emirato Islamico dell’Afghanistan vuole relazioni pacifiche e amichevoli con la comunità internazionale», è lo slogan pitturato sulla porta principale del ministero degli Esteri a Kabul. A un anno, sembra però che ci sia poco dialogo lasciando l’Afghanistan errare nell’incertezza del suo destino.