Diritti
Cure in gravidanza ma non per tutte: così l’America anti-abortista condanna le minoranze
Gli Usa hanno il tasso di morti legate al parto più alto tra i Paesi avanzati. Un record negativo speculare alle disuguaglianze sanitarie su cui si abbatte l’onda oscurantista. Un monito anche per l’Italia
Il mondo post-Roe potrebbe diventare un luogo meno sicuro per la salute delle donne americane che, senza possibilità legale di scelta, dovranno affrontare una gravidanza. La decisione con la quale il 24 giugno la Corte suprema degli Stati Uniti ha rinnegato il precedente storico Roe v. Wade che garantiva l’accesso all’aborto, si è infatti abbattuta su un Paese già in crisi, con il tasso di mortalità materna più alto dei Paesi economicamente avanzati: nel 2020 era di 23,8 morti materne ogni 100 mila nati vivi, e da molti anni questo indicatore non fa che aumentare. Sono decessi spesso evitabili e c’è il rischio che negare il diritto all’aborto finisca per allontanare alcune donne dal sistema e dalle cure necessarie.
«L’effetto sarà avvertito soprattutto dalle donne con i redditi più bassi, le donne di colore, le donne che vivono negli Stati più restrittivi sull’accesso all’aborto», spiega a L’Espresso Munira Gunja, ricercatrice presso la fondazione privata non profit The commonwealth fund, che si occupa di equità nell’accesso alla sanità.
Il problema infatti è che, se le pazienti corrono più pericoli, non si tratta tanto di una questione medica quanto sociale e politica. Le donne americane di colore rischiano quasi tre volte di più di morire per una complicanza dovuta alla gravidanza o al suo esito rispetto alle donne bianche: il loro Mmr (Maternal mortality rate) è di 55,3. Ma che cosa pesa di più, il reddito o l’etnia? Munira Gunja non ha esitato un istante: «Sono razza ed etnia il big factor, il fattore principale nel nostro Paese. Addirittura, le donne di colore che hanno frequentato il college hanno più probabilità di morire di parto di donne bianche meno istruite». La ricercatrice naturalmente ricorda che gli Stati Uniti non garantiscono la copertura sanitaria a tutti i loro cittadini; quasi 10 milioni di donne non sono coperte e milioni di altre hanno una assicurazione minima, rischiando spesso di pagare di tasca loro costi folli non solo per le cure in gravidanza, ma anche per quelle primarie. Un rapporto del The commonwealth fund evidenzia che il 52 per cento delle donne americane in età riproduttiva ha avuto almeno un problema nel pagare le cure mediche, magari perché l’assicurazione ha negato loro la copertura o le ha coperte solo in misura molto ridotta.
I risultati sono controlli medici rimandati, esami, trattamenti e cure farmacologiche saltati, che si traducono spesso in condizioni di salute che se fossero state prese in tempo non sarebbero state fatali. Solo il 26 per cento delle donne in età riproduttiva crede nella validità del sistema sanitario americano. Circa la metà delle morti materne negli Stati Uniti, inoltre, avviene tempo dopo il parto. «Dobbiamo assicurarci che le donne abbiano accesso alle cure già da ben prima di restare incinte e anche dopo la gravidanza e che, soprattutto chi ha redditi più bassi, le donne di colore e le appartenenti ai gruppi sociali più vulnerabili, riceva le basilari cure di prevenzione fin da giovane», conclude Munira Gunja.
In confronto agli Stati Uniti, la mortalità materna negli altri Paesi economicamente avanzati ha ben altre cifre. Anche in Italia. «Noi abbiamo un rapporto di mortalità materna pari a 8,58 morti materne ogni 100 mila nati vivi, stimato dal 2006 al 2017 per 13 regioni che insieme coprono l’81 per cento dei nati in Italia».
A fornire il dato è Serena Donati, direttrice del reparto Salute della donna e dell’età evolutiva del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute, dell’Istituto superiore di sanità. Donati, che è anche responsabile del Sistema di sorveglianza nazionale della mortalità materna, aggiunge: «Ci collochiamo alla pari di Francia, Regno Unito e Finlandia, mentre hanno dati leggermente più bassi l’Olanda, la Norvegia e la Danimarca. La Francia viaggia sull’8 per 100 mila, il Regno Unito sul 10, quindi siamo assolutamente in linea con Paesi con sistema sociosanitario simile al nostro».
Calcolare questi dati non è stato semplice. La mortalità materna non riguarda solo i decessi che avvengono al momento del parto, ma tutte le morti che possono essere direttamente o indirettamente associate alla condizione della gravidanza, a partire dal concepimento fino a 42 giorni dopo l’esito, che può essere la nascita del bambino ma anche aborti spontanei, interruzioni volontarie di gravidanza e ancora altre possibilità. Per anni, nel nostro Paese e altrove, il tasso di mortalità materna - Mmr secondo l’acronimo inglese - è stato gravemente sottostimato perché si basava solo sui certificati di morte.
Un medico che compila il certificato di morte di una donna deceduta d’infarto - e che ignora l’aborto spontaneo avvenuto un mese prima - potrebbe non ricollegare le due cose, e, pur potendo essere una morte materna, quel decesso non verrebbe registrato come tale. Dal 2008, in Italia si è iniziato a lavorare sull’associazione tra il certificato di morte e la scheda di dimissione ospedaliera, con una procedura detta record-linkage: quello che è venuto fuori è stato che sei morti materne su dieci mancavano all’appello. Il problema della sottostima non ha riguardato solo l’Italia: «Il Regno Unito ha rilevato una sottostima tra le due fonti del 56 per cento, la Norvegia del 62 per cento, la Slovacchia del 61, la Finlandia del 50 e la Francia del 36 per cento. Diciamo che noi, con il 60 per cento, siamo in linea con quello che è stato rilevato», afferma Donati. Avere chiare quali sono le reali dimensioni del fenomeno non è un tarlo da epidemiologi, ma è il punto di partenza per intervenire. Oltre alla raccolta affidabile dei dati, la sorveglianza sulle morti materne prevede che in presenza di un decesso per cause riconducibili alla gravidanza o al suo esito, il caso venga segnalato dall’ospedale o dalla clinica dove è accaduto e si avvii una complessa procedura di verifica, sia a livello regionale che nazionale. La conclusione è la risposta ad alcune domande, come: l’assistenza medica è stata adeguata? Che cosa si può migliorare? E, soprattutto, era una morte evitabile?
«L’ultima valutazione ha stimato la percentuale delle morti materne evitabili in Italia pari al 45 per cento», dice Donati, sottolineando che anche in questo caso il dato italiano non si discosta da quello di Paesi analoghi. Le cause delle morti evitabili sono in parte da attribuire a una assistenza non adeguata, e in parte a diseguaglianze sociali. L’esperta spiega che il rischio aumenta, per esempio, per le straniere: «Le donne con il rapporto di mortalità materna più alto, pari a 16 ogni 100 mila nati vivi, provengono dai Paesi a forte pressione migratoria, in particolare asiatici». Per le donne italiane un fattore che può fare la differenza è il livello di istruzione: quando è pari o inferiore alla terza media, il rischio raddoppia. Inoltre, le italiane con una istruzione elementare hanno un rischio più alto delle straniere di fare tardivamente la prima visita in gravidanza, utilizzata a livello internazionale come indicatore per valutare l’accesso alle cure prenatali appropriate.
Esistono differenze tra le regioni. «Purtroppo il sistema sanitario di alcune regioni del Sud è più critico rispetto a quello di molte regioni del Nord, per minori risorse economiche e professionali ma anche per diversità in termini di capacità di programmazione, organizzazione e gestione dell’offerta assistenziale», afferma Donati, che poi esprime questo divario in numeri: «Per quel dato nazionale di 8,58 morti materne ogni 100 mila nati vivi, passiamo dal minimo di Friuli Venezia Giulia e Toscana rispettivamente con 5,18 e 5,49 fino al dato più alto, in Campania e in Sicilia, rispettivamente di 11,65 e 12,24».
Infine, bisogna tenere presente un ultimo punto per confrontarsi correttamente con il diritto delle donne a una gravidanza e a un parto sicuri: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, non c’è giorno in cui non muoiano nel mondo circa 800 donne per cause legate alla maternità che si potevano prevenire e il 94 per cento di questi decessi avviene nei Paesi più poveri, a basso o medio-basso reddito.
Ma anche da noi, nella parte privilegiata del mondo, è indiscutibile la necessità di lavorare per abbassare al minimo inevitabile la mortalità materna. Nonostante la situazione in Italia regga, e questo grazie al sistema sanitario nazionale che segue il principio dell’universalità, garantendo cure a tutti. «Lo manteniamo questo sistema? Perché se non lo manteniamo il nostro destino è già segnato», conclude Donati. L’esempio in negativo degli Stati Uniti, anche da prima del rovesciamento della Roe v. Wade, dovrebbe tenerci all’erta.