Tecnologia e potere
Incubo smart city, il progetto di sorveglianza totale con la scusa della sicurezza
Estrazione dei dati privati. Controllo totale. A Toronto e Marsiglia l’esperimento viene contestato. Ma la Cina va avanti
Una smart city «è un luogo in cui reti e servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e delle imprese»: è la definizione di smart city che si può trovare sul sito dell’Unione europea, uno dei grandi attori nell’universo urbanistico del futuro, la cui definizione però si attiene a quella storica formulata dalla Ibm, prima azienda a parlare di “smart city”, consegnando all’espressione una chiara connotazione di marketing.
Aaron Shapiro, professore di “technology studies” alla University of North Carolina, in “Design, Control, Predict: Logistical Governance in the Smart City” (Minnesota University Press, 2020) ha provato a smontare questa “aura” delle città del futuro, presentate sempre come il rimedio a inquinamento, criminalità e inefficienze burocratiche, scavando all’interno del meccanismo che le regolerà, ovvero l’utilizzo massiccio di Big Data. In questo senso i due grandi esempi di smart city che si stanno sviluppando nel mondo, quelle cinesi e quelle occidentali, non si discostano granché: il principio è lo stesso ed è basato sull’estrazione dei dati da ogni nostra attività per procedere a una supposta organizzazione razionale degli spazi urbani.
Nelle smart city, infatti, scrive Shapiro, «i dati e le informazioni non si limitano a rappresentare i processi urbani: intervengono in essi. I flussi di dati e le architetture dell’informazione strutturano la nostra esperienza urbana, mediando il nostro accesso a istituzioni, risorse e servizi». Città del futuro e dunque - presumibilmente - “cittadinanza” del futuro: le metropoli che saranno guidate dai dati già pongono tutta una serie di interrogativi sul fronte dei diritti, che siano a Pechino o Toronto.
Proprio la città canadese costituisce un valido esempio di due traiettorie: la difficoltà a uscire dal paradigma “estrattivo” delle smart city come sono concepite in Cina e la grande fame di progetti “smart” e urbani da parte delle grandi aziende tecnologiche.
A Toronto SideWalk Lab di Alphabet, cioè Google, aveva vinto un bando di gara per trasformare una parte del lungomare della città in «un hub per un’esperienza urbana ottimizzata con robo-taxi, marciapiedi riscaldati, raccolta autonoma dei rifiuti e un ampio livello digitale per monitorare qualsiasi cosa, dagli incroci stradali all’utilizzo delle panchine». Solo che a maggio del 2020 il progetto era già stato dichiarato morto; per Alphabet il problema sarebbe stato il Covid, ma in realtà - come scritto da Mit Technology Review - sono stati soprattutto i cittadini di Toronto a fare naufragare il progetto: «L’opposizione alla visione di Sidewalk non riguardava questioni come la conservazione architettonica o l’altezza, la densità e lo stile degli edifici proposti.
L’approccio tech-first del progetto ha fatto paura a molti; la sua apparente mancanza di serietà riguardo le preoccupazioni sulla privacy degli abitanti è stata probabilmente la causa principale del fallimento del progetto». L’esempio di Toronto permette di addentrarsi nel vasto mondo dei progetti in corso e dei miliardi, centinaia, che ruotano intorno a sviluppi di future smart city in tutto il mondo.
Toronto evidenzia un primo problema negli attuali sviluppi delle “città intelligenti”, proponendo un “tecno-soluzionismo” che tende a trascurare l’importanza degli esseri umani. E soprattutto appare come un impianto tecnologico di estrazione di dati dai cittadini, più che un luogo in grado di facilitare la vita dei suoi abitanti.
L’esempio di Toronto porta a due riflessioni: intanto c’è da chiedersi chi vorrà vivere - al di là di chi se lo potrà permettere - in luoghi asettici per quanto “ordinati”, come se l’ordine fosse la cosa più ambita di una città, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte altre e incrociano più quel “fascino folle” di cui sono pieni i consigli delle guide Routard, anziché un ovattato “ordine”.
La seconda riflessione ha a che fare con la costante esigenza di dati dei colossi tecnologici e degli Stati. Dire dati non significa dire solo metropoli ma significa, oggi, soprattutto Intelligenza Artificiale, protagonista di una nuova corsa lanciata ormai da tempo; una competizione guardata oggi con interesse dai comparti militari alla luce della guerra in corso in Ucraina e delle possibilità tecnologiche future degli eserciti. Dire dati significa dire più possibilità di progredire sui sistemi di Intelligenza Artificiale.
Ci sono altre tendenze in corso. Marsiglia a sua volta, ad esempio, rappresenta il tentativo di trasformare la “smart city” in una “security city”, grazie a un uso capillare di videocamere - proprio come in Cina - finalizzate a uno degli obiettivi principali delle città intelligenti, ovvero la diminuzione della criminalità. Marsiglia si inserisce all’interno di un processo francese che ha avuto un’accelerazione dal 2015 anno degli attentati terroristici del Bataclan.
Da allora a Parigi il numero delle telecamere è quadruplicato, con la polizia locale intenta a utilizzarle per imporre i blocchi durante la pandemia e monitorare le proteste come ad esempio quelle dei gilets jaunes. Il punto finale di questo processo è arrivato con una legge contestata, quella sulla “sicurezza globale”.
Secondo Amnesty - prima della sua approvazione - si trattava di una «nuova legge draconiana che darebbe vita a un futuro distopico che non vorremmo mai vedere. Permetterebbe alla polizia di spiare chiunque, quasi ovunque, con un drone. Questo tipo di sorveglianza è un’enorme e inaccettabile intrusione nella vita delle persone».
Marsiglia è diventato così un banco di prova per la tecnologia di sorveglianza. La battaglia contro l’invasività dei sistemi di sorveglianza da parte di alcuni attivisti francesi è cominciata fin dal 2017, quando fu annunciato il progetto “Big Data of Public Tranquility”, finanziato da un investimento di 1,5 milioni di euro dall’Unione Europea, dalla città di Marsiglia e dalla regione delle Bouches-du-Rhône. Un progetto che aveva come scopo quello di raccogliere i dati della polizia locale, dei vigili del fuoco, degli ospedali e delle videocamere, utilizzando l’Intelligenza Artificiale nel tentativo di comprendere e prevedere meglio i rischi per la sicurezza. In pratica, una smart city governata sul fronte della sicurezza dai modelli predettivi, proprio come nel film “Minority Report”, senza i precog, ma con gli algoritmi.
Il fenomeno non è solo europeo, anzi. Gli attivisti di Electronic Frontier Foundation da tempo tengono traccia della diffusione della tecnologia di sorveglianza tra le forze dell’ordine locali e hanno prodotto una ricerca sui cosiddetti Rtcc, Real Time Control Center negli Stati Uniti, unità dedite al controllo in tempo reale della criminalità, una delle caratteristiche salienti delle future smart city, almeno nelle intenzioni. Gli Rtcc «si concentrano sulla distribuzione di informazioni sulle “minacce” alla sicurezza nazionale, che sono spesso interpretate in modo ampio» e sono generalmente focalizzati «su attività a livello municipale o di contea, concentrandosi su uno spettro generale di problemi di sicurezza pubblica, dai furti d’auto ai crimini armati». L’espressione “tempo reale”, però, è alquanto fuorviante secondo la Electronic Frontier Foundation: «mentre ci si concentra spesso sull’accesso ai dati in tempo reale per comunicare ai primi soccorritori, molte forze dell’ordine utilizzano gli Rtcc per estrarre dati storici per prendere decisioni in futuro attraverso modelli predittivi, una strategia controversa e in gran parte non provata per identificare i luoghi in cui potrebbe verificarsi il crimine o le persone che potrebbero commettere crimini». Predizioni che ad oggi incidono in percentuale minimo sulle attività preventive della polizia.
Big Data, modelli predittivi e controllo: per quanto la narrazione delle smart city cerchi di spingere su concetti come sostenibilità e una migliore organizzazione urbanistica, è il sistema “estrattivo” dei dati a caratterizzare anche i principali esempi di smart city occidentali. E proprio queste caratteristiche pongono seri dubbi sulla possibilità di sviluppare città del futuro differenti rispetto a quanto sta accadendo nel paese che da tempo investe di più sul concetto, cioè la Cina. Un esempio - senza mai dimenticare che il contorno è differente, in Occidente è possibile contestare o bloccare alcune scelte, come successo a Toronto, ben più complicato è farlo in Cina - è stato quello di Shanghai. Come ha scritto Le Monde, nominata “smart city” dell’anno dalla società britannica Juniper Research, «Shanghai è diventata per due mesi anche la prigione più grande del mondo. Venticinque milioni di persone sono state rigorosamente confinate nelle loro case per un periodo compreso tra 60 e quasi 90 giorni, a seconda del quartiere». Per il quotidiano francese la débacle della capitale economica cinese durante l’epidemia di Covid rappresenta il passaggio - traumatico - da un’idea di città utopica a quella di città distopica. Questo processo avviene perché alla base del concetto di smart city c’è una raccolta incessante di dati, che permette una rapida trasformazione di una città da un luogo di cui si promette incontaminazione da crimine e inquinamento, in uno totalmente controllato in caso di emergenze, reali o fittizie. Non solo: la Cina è il paese che investe di più nelle tecnologie “smart city” e finirà per conquistare interi mercati (si calcola che il mercato globale delle città intelligenti dovrebbe raggiungere i 2,7 trilioni di dollari entro il 2027).
Sfruttando l’enorme mercato del paese, ha scritto il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, «Pechino offre pacchetti chiavi in mano all’estero basati su standard proprietari delle sue aziende Huawei, Zte e Hikvision» e trasportati sui mercati di riferimento dalle infrastrutture digitali della Nuova via della Seta. Per ora Pechino agisce per lo più con i paesi in via di sviluppo (e riscontrando di recente notevoli difficoltà a entrare sui mercati europei), «installando apparecchiature basate su standard cinesi spesso non intercambiabili con alternative occidentali meno invadenti. Si stima che circa il 70% dei sistemi di telecomunicazioni 4G in tutta l’Africa siano cinesi».