Nel centro di Riga, nel cuore del "Parco della Vittoria" della capitale lettone, c'è un' enorme buca. Le transenne della polizia che la circondano impediscono di avvicinarsi e la prima neve che ha ricoperto il terreno rende più difficile distinguere le forme, ma la fossa è evidente.
Si trova dove fino a pochi mesi fa sorgeva un imponente obelisco alto 79 metri, costruito nel 1985 dagli occupanti sovietici per commemorare la vittoria dell'Armata Rossa contro la Germania nazista del '45. Dall'indipendenza lettone del 1991, intorno al monumento si sono sviluppati sentimenti contrastanti, mossi soprattutto da due diverse memorie storiche.
Per la maggioranza lettone, non rappresentava la vittoria contro i nazisti, ma l'inizio dell'occupazione sovietica. Per i russofoni che vivono nel Paese - circa un terzo della popolazione totale - era invece il punto di ritrovo dove festeggiare il 9 maggio, la festa della Vittoria, una delle celebrazioni più sentite della cultura russa. Queste diverse, e apparentemente inconciliabili, letture della storia si sono scontrate in più momenti negli ultimi trent'anni, ma sono riuscite in qualche modo a stare in equilibrio sul filo della convivenza. Fino allo scorso anno, quando lo scoppio della guerra in Ucraina ha risvegliato la paura e le tensioni tra le due comunità sono esplose. Il 25 agosto il Memoriale della Vittoria di Riga è stato abbattuto.
Se il passato è presente
Olga Dragileva è una giornalista del giornale online Delfi e autrice di una lettera aperta firmata da molte personalità di lingua russa come lei, con la quale, in occasione del 9 maggio 2022, invitava i discendenti dei soldati sovietici a rendere omaggio agli antenati senza però celebrare il Giorno della Vittoria, il cui significato era stato ormai fuorviato dalla narrativa fatta dal Cremlino. «Prima del 24 febbraio avrei detto che non era necessario abbattere il Memoriale - spiega - Ora però la mia opinione è cambiata. È chiaro che le atrocità che commette la Russia non sono più solo un ricordo del passato, ma vengono commesse tutt'oggi in nome degli stessi slogan scritti su quei monumenti».
L'obelisco di Riga non è stato l'unico ad essere distrutto. Il governo lettone ha deciso che tutti i simboli che glorificavano l'occupazione sovietica dovevano essere abbattuti. In pochi mesi circa 120 monumenti sono stati smantellati. «Putin ha rovinato le celebrazioni del 9 maggio. Prima era davvero una festa, mentre ora ha assunto un altro significato».
Anna Gabunija è un medico, è nata in Russia, ma vive a Riga dal 2016. «La direzione in cui stava andando la Russia non ci piaceva e abbiamo colto la prima occasione per andarcene», spiega. Dopo il 24 febbraio, insieme ad altri membri della comunità russofona di Riga, ha fondato un movimento: "Voci russe contro la guerra". «Abbiamo iniziato subito a protestare davanti all'ambasciata russa. Volevamo dire con fermezza che parlare russo non significa essere d'accordo con il Cremlino».
Per un Paese come la Lettonia, empatizzare con l'Ucraina ha un significato profondo. Rappresenta il passato che esce dai suoi confini e irrompe violentemente nel presente. «Quest'anno la storia è diventata meno astratta, soprattutto per i più giovani - spiega Ineta Lansdowne, storica e guida del Museo dell'Occupazione di Riga - ora attraverso quello che sta succedendo in Ucraina vedono la nostra storia, e viceversa». Mentre cammina attraverso le stanze del museo, Lansdowne accenna alla storia della sua famiglia, interamente deportata nel Gulag nel 1948. Racconta di come sua nonna si irrigidisse ogni volta che sentiva parlare russo: «In Siberia sua sorella è stata stuprata, i suoi nonni sono morti e sua madre non è mai più stata la stessa - racconta - Mia nonna, quando per necessità doveva parlare russo, cambiava completamente linguaggio del corpo».
La lingua del terrore
«Per i lettoni la loro lingua è quasi una religione». Anna Gabunija in sei anni ce l'ha messa tutta per imparare il lettone: «È l'unico modo per entrare in questa cerchia». La questione linguistica è un altro esempio di come la Lettonia sia attraversata da un fronte, fatto di simboli e memoria, e molto doloroso. Un fronte che è stato sostanzialmente riaperto dopo l'invasione dell'Ucraina, esponendo una guerra tra i vivi e i morti che non è mai stata davvero consegnata alla Storia.
Da decenni il dualismo etnolinguistico lettone rappresenta una delle principali tensioni all'interno della società. La presenza di una comunità russofona risale ai tempi dell’impero zarista, ma è con la Seconda guerra mondiale e le deportazioni degli anni '40 e '50 - e la conseguente immigrazione dalla Russia - che è cresciuta enormemente.
Dopo l'indipendenza, i russofoni presenti nel Paese, però, non sono stati naturalizzati e per avere la cittadinanza devono tutt'ora passare un esame di lingua lettone. Ad oggi ci sono più di 200 mila russofoni che non parlano lettone, sono considerati "non cittadini" e hanno, quindi, diritti limitati. «Tanti russi credo continuino a sentirsi superiori, non vogliono imparare il lettone, non vogliono rassegnarsi a essere una minoranza - spiega Gabunija - Dall'altro lato però non si può pretendere che persone che hanno parlato russo per tutta la vita, magari anziane, imparino un'altra lingua».
La guerra in Ucraina ha acuito le tensioni preesistenti fino al punto che dibattiti pubblici che andavano avanti da trent'anni, si sono conclusi in pochi mesi. È il caso dell'abbattimento dei monumenti sovietici, ma anche del controverso dilemma delle scuole russe. A settembre il Parlamento ha approvato una legge che stabilisce che entro il 2025 l'istruzione sarà solo in lettone, eliminando di fatto le tante scuole russe presenti nel Paese.
Olga Dragileva, che durante la sua infanzia a Riga ha frequentato proprio queste scuole, è convinta che la riforma possa portare cambiamenti positivi. «Io ho avuto la mia prima vera conversazione con un lettofono quando ho iniziato l'università - racconta - e questo è assurdo. Uniformare il sistema scolastico è l'unico modo per far sì che le due comunità si mescolino e si influenzino a vicenda fino al punto di riuscire finalmente a creare una memoria collettiva comune».
Dietro un'accelerazione così repentina della costruzione di un'identità nazionale c'è, ancora una volta, la paura. Non solo una generica russofobia, ma un più concreto timore di poter essere "i prossimi". La presenza di una maggioranza russofona nel Donbass ucraino è stata una delle motivazioni addotte da Putin per l'invasione e ora i lettoni temono che la nutrita minoranza russa del Paese - in particolare nella regione orientale del Latgale, dove la maggioranza assoluta della popolazione si identifica come russa - possa guardare a Mosca.
Non è un caso che proprio quest'anno il governo abbia reintrodotto il servizio militare obbligatorio. «La militarizzazione non mi piace», dice Martins, avvocato 34enne di Riga, «ma l'Ucraina ci ha insegnato che se non facciamo la nostra parte per proteggerci nessuno lo farà. È una questione esistenziale». Identità in costruzione Il 2022 ha visto concretizzarsi paure che prima venivano scacciate come si fa con una mosca fastidiosa, o come un'angoscia che non si vuole nominare.
La Lettonia ha cercato così di costruirsi un'identità che fosse ben salda sul suo patriottismo, tentando di livellare le complessità della società. Il rischio, però, è che invece di unire e uniformare, riforme come quelle messe in moto negli ultimi mesi possano portare una grande fetta della comunità a sentirsi sempre più esclusa della società, generando polarizzazione e marginalizzazione. Il risultato è che per un russo-lettone potrebbe essere sempre più difficile mantenere entrambe le proprie identità. «Non vogliamo perdere le nostre radici, ma questo non vuol dire che ci identifichiamo con la Russia di Putin, che sta rovinando la cultura del nostro popolo - conclude amareggiata Anna Gabunija - Forse ora dobbiamo riuscire a trovare una nuova identità russa, che non sia dolorosa per la componente lettone della società, ma che ci permetta di mantenere senza vergogna le nostre origini».