Intervista
La delicata missione di Joe Biden: evitare che la guerra si allarghi e ammonire i nemici d'Israele
L’aiuto incondizionato degli Usa a Tel Aviv suona come un avvertimento all'Iran e alla Siria. Nel tentativo di salvare i rapporti con l'Arabia Saudita. Perché dal tipo di risposta di Gerusalemme dipenderà il futuro di tutta l'area. Lo spiega un'esperta
«Nel folle mondo alla rovescia del Medio Oriente, questa guerra potrebbe portare se non la pace, almeno a un risultato positivo». Sorprende e intriga l’analisi controcorrente che Laura Blumenfeld azzarda dello spaventoso conflitto in corso tra Israele e Hamas. Per l’analista della Johns Hopkins School for Advanced International Studies di Washington, «gli eventi tragici di oggi, a lungo termine, stimoleranno i partner mediorientali a cercare una soluzione diplomatica». Alla negoziazione israelo-palestinese Blumenfeld si è dedicata per anni, soprattutto durante quelli dell’amministrazione Obama, quando ha lavorato come consigliera dell’allora segretario di Stato John Kerry.
«L’attentato di Hamas ha messo a fuoco lo stretto rapporto tra l’amministrazione americana e Israele», dice commentando l’appoggio incondizionato espresso dalla Casa Bianca all’azione militare a Gaza. Lo dimostra il piano di massicci aiuti, inclusi quelli immediati come la portaerei Ford già inviata nella regione.
Il dossier che ha davanti il presidente Joe Biden è di certo uno dei più complessi del suo mandato. Si tratterà innanzitutto di arginare i confini del conflitto evitando che si propaghi ai Paesi limitrofi e mostrando i muscoli alle forze antiamericane tentate di sostenere Hamas. Il pugno duro è rivolto soprattutto all’Iran, foraggiatore delle milizie. Biden dovrà anche provare a salvare i negoziati tra sauditi e israeliani, serrare le file degli alleati europei e soprattutto impedire che il nuovo fronte risulti un regalo a Vladimir Putin. Il Congresso, difatti, potrebbe votare per un assottigliamento del flusso di aiuti verso l’Ucraina, deviandolo verso il Medio Oriente.
Una missione delicatissima per la Casa Bianca, ma essenziale per Tel Aviv.
«Quando Benjamin Netanyahu si è rivolto alla nazione, ha subito ringraziato Biden. “Gli americani stanno arrivando”, ha detto. Un fatto importante, ci fa capire il grado di disperazione: Israele si è sempre vantato di difendersi da solo, è una sua caratteristica. Ma è stato anche un avvertimento: l’intervento americano è una dimostrazione di forza per dissuadere l’Iran, la Siria, Hezbollah o qualsiasi altro gruppo militante dall’unirsi al conflitto. Due parole spiegano bene la posizione statunitense: coordinamento (con Israele) e avvertimento (ai nemici)».
Netanyahu ha promesso attacchi che «si riverbereranno per generazioni». Riuscirà a vincere?
«Tutto quello che il Paese ha realizzato negli ultimi 75 anni, sia sul piano militare che politico, economico, diplomatico lo ha raggiunto puntando sulla proiezione della sua forza. Se perderà la capacità di deterrenza, allora i potenziali alleati per la pace, come l’Arabia Saudita, e i potenziali avversari considereranno Israele debole. Se invece in questa prima fase si mostrerà solido, non solo con la forza bruta, ma anche con la raffinatezza strategica, allora l’umiliazione di oggi diventerà l’affermazione di domani. Credo che la domanda che tutti si stanno facendo sia: Israele è ancora Israele? È uno Stato moderno costruito sulla sabbia, deve dimostrare di essere ancora saldo, che le fondamenta sono solide».
Un elemento cruciale sono i numerosi ostaggi, tra cui cittadini americani, che Hamas userà come scudi umani.
«Ci sarà molto da lavorare. Gli ostaggi complicano infinitamente la crisi. Sicuramente, Washington sfrutterà i contatti ben consolidati per la negoziazione. Guardate quello che è successo con gli ostaggi americani in Iran».
Gli sforzi di Biden per stabilire relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita potrebbero dissolversi in questa nuova guerra. Pensa che ci sia ancora spazio per un riavvicinamento?
«Sì, ma non nel breve periodo. La diplomazia Usa deve impegnarsi nel processo di stabilizzazione. Allo stesso tempo, l’Arabia Saudita aspetterà e studierà l’evolversi della situazione. Gli Accordi di Abramo (del 2020, tra Israele, Emirati Arabi e Bahrain, ndr) si basano su due principi: “Pace per la pace e pace attraverso la forza”. Non “terra in cambio di pace”. Se Riad, nel lungo termine, considererà Tel Aviv un alleato forte, ci sarà potenziale. Immaginatela come una partita di tennis, un doppio che si gioca con bombe a mano: nessuno vorrebbe un partner maldestro».
L’Iran non ha mai avuto interesse affinché questi accordi andassero in porto.
«Per l’Iran come per Hamas, la minaccia esistenziale non arriva più dalle armi, ma dall’irrilevanza che deriverebbe loro dalla pace. Mentre israeliani e sauditi dialogavano, gli iraniani hanno detto: se non c’è posto a tavola per noi, avveleniamo il cibo».
Alla luce del possibile coinvolgimento di Teheran, come cambieranno i rapporti con Washington?
«Bisogna aspettare per capire quali linee rosse verranno oltrepassate. Per esempio, se Hezbollah, che è sostenuto dalle forze iraniane, lancerà missili di precisione contro le raffinerie di petrolio o i civili, si punterà alla testa del serpente, piuttosto che alla coda. Hamas e Gaza sono la coda, Teheran, la testa».
Se la guerra dovesse protrarsi, che impatto avrà sulle presidenziali americane del 2024?
«Ci saranno delle implicazioni. Solitamente, la politica estera non influisce troppo sulle elezioni, ma l’economia sì. Stiamo già avvertendo le conseguenze sul prezzo del petrolio, mentre ci avviciniamo all’inverno. Pensate a cosa è successo nella guerra dello Yom Kippur nel ’73 che ebbe conseguenze sia sull’economia nazionale, che mondiale. Un altro motivo per cercare di evitare che si arrivi a una guerra regionale».