Il premier israeliano è sostenuto da una coalizione nazionalista e ultraortodossa. Coltiva relazioni con i sovranisti europei e con Giorgia Meloni. Un rapporto di convenienza reciproca per garantirsi legittimazione politica. Mentre sulla questione palestinese la sua responsabilità nel fallimento è pesante

Se è vero che l’assalto armato dei miliziani di Hamas contro Israele ha molti punti di somiglianza con la guerra del Kippur di cinquant’anni fa, allora il destino politico del premier Benjamin Netanyahu appare segnato. Mezzo secolo fa, toccò a Golda Meir, primo ministro del tempo, a esser chiamata a rispondere del flop in cui incorsero gli apparati di sicurezza, i quali, anche allora come sabato scorso, non seppero cogliere gli indizi della guerra imminente e trasformarli in allarme. Una commissione d’inchiesta risparmiò a Meir ogni addebito diretto e personale ma la “lady di ferro” della generazione dei fondatori dello Stato ebraico decise ugualmente di dimettersi e tornare a fare la nonna.

 

Oggi, c’è chi, come il giornale Haaretz, vorrebbe mandare a casa Netanyahu da subito, senza neanche aspettare l’esito dell’inchiesta che sicuramente sarà varata dopo la fine della guerra contro Hamas, perché, secondo il quotidiano liberal, sul primo ministro conservatore grava la responsabilità politica di quello che viene considerato il più «catastrofico fallimento» nella storia degli apparati di sicurezza israeliani.

 

Un epilogo così poco edificante nella carriera politica del Bibi nazionale, non deve stupire. Se Golda Meir ha potuto godere di una sorta di esenzione di colpa dovuta alla sua inoppugnabile ignoranza in materia militare, nel caso di Netanyahu, la sua sbandierata presunta competenza in fatto di sicurezza, una tradizionale carta vincente nelle numerose campagne elettorali di cui è stato protagonista, verrebbe valutata come un’aggravante. E a salvarlo non basterebbe l’appellativo di “Mr. Security” di cui si è autogratificato nel tempo, né il grado di generale della riserva, né l’esser cresciuto all’ombra del fratello, Jonathan, detto Yoni, l’eroico comandante e unica vittima dell’operazione di liberazione di ostaggi di Entebbe, nel 1976. Perché, come ha scritto proprio Haaretz, sulla Sicurezza si basa il contratto sociale tra i cittadini israeliani e lo Stato. E Netanyahu quel contratto non l’ha onorato.

 

L’eventuale uscita di scena di Netanyahu susciterebbe reazioni di varia natura nelle cancellerie occidentali, ma sicuramente i rimpianti dell’attuale governo del nostro Paese, assieme al quale, come aveva annunciato a Giorgia Meloni nella sua visita ufficiale in Italia del marzo scorso, Netanyahu si era ripromesso di «fare grandi cose». Auspicio solennemente ricambiato dalla premier italiana. Quella tra Netanyahu e Meloni è una luna di miele che, seppure recente, non ha mai conosciuto stanchezze o indecisioni.

 

Per la verità, i rapporti tra Israele e Italia sono stati eccellenti anche tra i rispettivi precedenti governi. Ma mentre un Yair Lapid o un Binyamin Gantz, i leader centristi, sono figure molto legate al contesto politico israeliano, Netanyahu ha qualcosa in più: la pretesa, cioè, di appartenere alla leadership della destra sovranista continentale, con la quale Meloni ha, o forse qualcuno direbbe aveva, una certa affinità. Non a caso il premier israeliano ha coltivato intensi rapporti con il gruppo di Visegrad, composto dai leader populisti di Slovacchia (Peter Pellegrini), Repubblica Ceca (Andrej Babis), Polonia (Mateusz Morawiecki) e Ungheria (Viktor Orbán), spina nel fianco dell’Unione Europea, ricevuti nel 2019 a Tel Aviv con tutti gli onori.

 

Con Giorgia Meloni sono stati subito rose e fiori. Tant’è che a marzo, mentre a Tel Aviv infuriava la protesta contro il “golpe giudiziario” messo in atto da Netanyahu con una “riforma” per modo di dire che in realtà limita i poteri di supervisione dell’Alta Corte sull’operato del governo, uno dei pilastri della democrazia israeliana, Bibi e la first lady, Sara, decidevano di fare una visita ufficiale in Italia. Il viaggio a Roma di Netanyahu ha inevitabilmente avuto il significato di una ricerca di accettazione, se non di legittimazione politica, da parte di un importante partner europeo nel momento in cui l’opinione pubblica israeliana e non solo manifestava le sue perplessità sull’operato della nuova maggioranza di governo.

 

Per ampliare il suo record di permanenza al potere, certamente con il conforto del voto popolare, Bibi ha scelto una coalizione di partiti ultraortodossi e nazionalisti religiosi, questi ultimi guidati da estremisti suprematisti e fanatici, come Itamar Ben-Gvir, e Bezalel Smotrich, fautori dell’annessione dei Territori Occupati da parte d’Israele e nemici dichiarati del fu, precisiamo fu, processo di pace con i palestinesi.

 

Perché mai questo patto scellerato? Un po’ perché Netanyahu nella sua lunga presenza al vertice del governo (premier, la prima volta, dal 1996 al 1999 e poi dal 2009 a oggi con qualche breve interruzione) non ha mai veramente favorito la nascita di uno Stato palestinese destinato a vivere, come recita la formula politico-diplomatica dei “due Stati” in pace a sicurezza accanto allo Stato ebraico. In questo senso Bibi è figlio di suo padre, Benzion Netanyahu, storico del medioevo ebraico e segretario del leader sionista revisionista, Vladimir Zabotinsksji. Dialogo? No, piuttosto il “muro di ferro” a separare le due comunità.

 

Ma a spingere Netanyahu verso l’ala più oltranzista dello schieramento politico, da sempre nemica del processo di pace, è stato anche se non soprattutto l’aspettativa, o secondo alcuni, il patto, secondo cui gli alleati gli avrebbero garantito l’ombrello di voti che lo avrebbe protetto dall’eventuale esito sfavorevole dei tre procedimenti penali che lo vedono imputato di malversazioni varie. In cambio, l’ex moderato Bibi, ha dovuto portare avanti una controriforma giudiziaria che è stata giudicata un vero e proprio golpe contro la democrazia israeliana, delegando al leader del partito Potere Ebraico, Smotrich, la gestione dei Territori Occupati sottraendola alla competenza dell’esercito e concedendo a Ben Gvir, a suo tempo seguace dell’ultranazionalista rabbino Meir Kahane, la conduzione della Sicurezza dello Stato.

 

Qualche osservatore malizioso, in Israele, ha letto l’incontro tra Bibi e Giorgia come ispirato dalla logica dello “snatch my back”, io gratto la schiena a te e tu la gratti a me, in sostanza un incontro all’insegna del favore reciproco. Da un lato, venendo a Roma, in un momento di assoluta impopolarità Bibi avrebbe incassato, come si dice, una foto-opportunity, accanto alla leader di una grande democrazia occidentale; dall’altro Giorgia Meloni avrebbe potuto ancora una volta dimostrare che i suoi trascorsi neofascisti erano archiviati e che quella giovanile, trascorsa militanza in una formazione dall’ideologia antisemita non avrebbe inficiato i rapporti con il capo del Paese leader politico dell’ebraismo mondiale.

 

In effetti nulla in quella visita ha minimamente offuscato l’atmosfera di “amicizia e cooperazione”, come usa dire, tra Italia e Israele. Men che meno la madre di tutte le controversie, la questione palestinese sulla quale, pure, ci sarebbe stato molto da dire. Per esempio, a proposito dell’attendismo di Netanyahu che ha lasciato marcire il negoziato di pace, della spaventosa accelerazione della repressione nella West Bank, dove dall’inizio dell’anno alla fine di settembre sono stati uccisi 245 palestinesi e dove i coloni ormai dettano la loro legge, dell’isolamento in cui è stato condannato il presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen e infine della sterzata amministrativa nella gestione nei Territori Palestinesi, ormai di fatto sottratti alla competenza dell’esercito, per rientrare in un piano il cui obiettivo sembra essere l’annessione unilaterale.

 

E così, mentre fioriscono i rapporti con Israele, ai palestinesi riserviamo una solidarietà sempre più di facciata, con la scusa che l’Autorità di Abu Mazen traballa minata com’è da inefficienza e corruzione, contribuendo in tal modo a screditare il leader palestinese scelto dagli stessi israeliani e dagli americani, proprio in virtù della sua moderazione, per sostituire Yasser Arafat.