Editoriale
«Il problema non è Israele, ma Benjamin Netanyahu»
Le scelte improntate a crudele cinismo politico del premier israeliano sono criticate delle stesse comunità ebraiche. E portano in alto il contatore della morte. Anche in Italia, emergono i limiti di un dibattito egemonizzato dall'obbedienza. Al governo
No, non c’è alcun antisemitismo nel constatare che al barbaro massacro di Hamas contro civili israeliani inermi, non Israele, ma il suo premier, Benjamin Netanyahu, ha risposto con un’offensiva che ha devastato Gaza, seminando morte tra la popolazione innocente. Dalla settimana successiva al 7 ottobre, quando la risposta del primo ministro è apparsa perfino giustificata dallo smacco subito, il mondo si è interrogato su un’escalation che a oggi non lascia intravedere la fine. Se l’orrore avesse una ragione contabile, sarebbe evidente la sproporzione in termini numerici di vite umane perse. Inermi innocenti gli israeliani assassinati dalla furia jihadista, decine di migliaia di più gli inermi innocenti palestinesi sepolti sotto alle macerie della Striscia.
Non gli ebrei, non Israele, ma le scelte, tutte improntate a crudele cinismo politico, di Benjamin Netanyahu sono il cuore del problema. Da Occidente a Oriente, in casa e fuori, proprio la vivace e democratica comunità ebraica ha messo in discussione la legittimità della prosecuzione della guerra voluta dal primo ministro. La permanenza di ostaggi nelle mani di Hamas, l’ostinata preclusione alla ricerca di soluzioni negoziali hanno offerto a Bibi il destro per portare l’affondo su Rafah e far schizzare, se è possibile, ancora più in alto il contatore della morte. L'instabilità di una regione, il radicarsi di un fondamentalismo che non appartiene a tutti i palestinesi, l’aver fiaccato le leadership moderate sono i mezzi politici usati in tempo di relativa pace, perché lì la pace non esiste da decenni, lisciando il pelo all’oltranzismo domestico.
Il problema non è dunque Israele ma Benjamin Netanyahu. Discutere se quel che sta accadendo nella Striscia sia genocidio o se la parola evoca in sproporzione l’Olocausto devia l’attenzione dalla sostanza. Anche quando a pronunciarla, in perfetta libertà di opinione, suscitando le ire del rappresentante diplomatico israeliano, sia Ghali. Perché il problema non è Israele ma Benjamin Netanyahu. Il problema non è la Palestina ma i miopi e famelici capi di Hamas, in larga parte, peraltro in comodo esilio dorato.
E questo ci porta al nostro misero cortile di casa. Dove un drappello di servili adepti della setta governativa corre a presidiare ogni snodo del dissenso, dalla scuola alla tv, per spargere bromuro sullo spettacolo pubblico dell’opinione dominante. Ghali rimbrottato sui massacri, Dargen D’Amico zittito sui migranti, i colonnelli della capa a cannoneggiare sul Festival di Sanremo e il ministro Giuseppe Valditara che vuole punizioni esemplari per gli studenti occupanti. Fosse solo questo, visto da lontano, il Paese sembrerebbe davvero non avere poi troppi problemi. E invece ne ha e di giganteschi. Riguardano proprio i metodi del confronto democratico, lo sfuggire alle domande, il trincerarsi dietro una cortina comunicativa protetta, il fastidio per la stampa, il trascinare in tribunale lo storico Luciano Canfora. E farsi assistere dal sottosegretario alla Giustizia.
E qui, perfino la fermata fuori programma del treno del cognato Francesco Lollobrigida appare un’inezia da marchese del Grillo. Il sottosegretario Antonio Delmastro Delle Vedove è uno dei presenti alla misteriosa sparatoria di Capodanno a Rosazza, Biella. Di suo ha già querelato Matteo Renzi quando gli ha sollecitato chiarimenti definitivi su quella festa più indecifrabile di un giallo di Agatha Christie. Ed è lo stesso che nel tinello della casa condivisa ha raccontato a Giovanni Donzelli particolari riservati che servivano al coinquilino per sostenere in Parlamento la necessità di un uso distorto del 41 bis nei confronti dell’anarchico Alfredo Cospito. Delmastro, incurante del gigantesco conflitto di interessi, sulla grisaglia ministeriale tornerà a indossare la toga a difesa di Giorgia Meloni, per affrontare Canfora e i giudici.
Gli stessi ai quali, lui e il suo ministro Carlo Nordio, un giorno sì e l’altro pure, vorrebbero dare una robusta regolata. Perché bisogna credere, certo. E combattere, anche. Ma su tutto: obbedire.