Medio Oriente in Fiamme
Chi pagherà il dopoguerra a Gaza
Sulla ricostruzione a conflitto finito è già iniziata la discussione. Gli aiuti non mancheranno, ma sarà decisiva l’organizzazione politica dei territori. Su cui oggi nessuno è d’accordo
I Paesi mediorentali moderati – guidati paradossalmente dal Qatar che finanzia Hamas – vorrebbero per Gaza una zona franca amministrata e presidiata dall’Onu. Quelli più oltranzisti come l’Iran liquidano la faccenda dicendo che Israele non ha diritto di esistere. Gli europei, anch’essi divisi, vedono per Gaza un protettorato controllato per ora dai Caschi blu o comunque da una forza multinazionale, in attesa di passare al legittimo governo palestinese. Gli americani spingono per un’amministrazione in mano da subito all’Anp (discendente di Fatah che fu cacciata dalla Striscia da Hamas nel 2007), che già governa in Cisgiordania, purché però sia sostituito il logoro capo Abu Mazen. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu insiste per mantenere il controllo dello Stato ebraico anche quando il cannone tacerà. Commenta Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari internazionali: «Le ipotesi più fantasiose si rincorrono sul destino di Gaza, tutte venate di profonda angoscia e di sostanziale indefinitezza perché purtroppo non si vede la fine delle ostilità». Sul destino della Striscia si è aperto un dibattito pari per intensità a quello sulla fine dei combattimenti, che si arricchisce di interventi al massimo livello: l’Onu, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, blog di commentatori prestigiosi come Fareed Zakaria secondo cui la “finestra di vendetta” per Israele è chiusa, o il Nobel dell’economia Paul Krugman, che scrive che «è inevitabile che Israele voglia mantenere il controllo su qualsiasi commercio in entrata e in uscita da Gaza con facoltà di controlli in loco, oltre ovviamente che sulla sicurezza».
La prima urgenza sarà ricostruire la città ridotta dalle bombe israeliane a un cumulo di macerie. La zona a Nord del fiume Wadi, ovvero la maggior parte di Gaza City, è distrutta. I precedenti non sono confortanti. Quella in corso è la quinta offensiva militare – la più drammatica – mossa da Israele in 16 anni di autogoverno di Hamas. L’ultima durò 11 giorni dal 10 maggio 2021 (la miccia erano stati alcuni razzi sparati verso postazioni israeliane): i morti palestinesi furono 261, più 2.200 feriti, e 1.770 le case distrutte. A due anni di distanza, cioè nella scorsa primavera, ne erano state ricostruite non più di 400. I ritardi erano dovuti all’inefficienza di Hamas (che pure aveva inizialmente, prima di cedere alla deriva terroristica, dato buona prova di sé nell’edificare infrastrutture e welfare state), che ritardava l’attività dell’United Nations Relief and Works Agency (Unrwa). I lavori erano nel pieno quando si è scatenato il nuovo inferno: allo staff dell’Unrwa appartenevano i 105 funzionari Onu che hanno perso la vita. «Una strage nella strage vergognosa e inumana», ha detto l’Alto Commissario per i Diritti umani, l’austriaco Volker Tuerk. «Per la ricostruzione serviranno molte decine di miliardi di dollari», rincara Richard Kozul-Wright, direttore del “development strategies” di un’altra agenzia dell’Onu, l’Unctad (Un conference on trade).
In parallelo bisognerà normalizzare i flussi finanziari, che dovevano essere di conforto in un territorio dove l’80% della popolazione dipende dagli aiuti internazionali, il 45% è disoccupato e lo stipendio medio è 300 dollari, ma hanno invece alimentato il terrorismo. Ha spiegato Ubi Shaya, ex agente del Mossad, oggi consulente del governo israeliano, in un incontro all’ambasciata di Roma: «Negli ultimi 12 mesi sono arrivati dal Qatar 360 milioni di dollari e in totale su Gaza sono piovuti 2,6 miliardi transitati attraverso Turchia, Europa, Libano, Malesia». La gente ha visto la minima parte. «La Striscia non è un’economia di pura sussistenza, perché ha ospedali, corrente elettrica, acqua corrente, Internet, cellulari», obietta Giampaolo Galli, economista della Cattolica. «Acqua e elettricità sono fornite da Israele forse a pagamento. Gaza è un pessimo posto dove vivere, ma ha un flusso di scambi commerciali e finanziari con l’estero, e un enorme deficit commerciale colmato con gli aiuti umanitari. C’è da chiedersi come abbiano fatto a entrare le armi con tutti i controlli israeliani». Nell’intersecarsi di aiuti umanitari da regolarizzare e di forniture clandestine risiede l’enigma di Gaza. Tra l’altro il fatto che la valuta è lo shekel israeliano attribuisce a Tel Aviv il potere di controllo fiscale e monetario. Per i finanziamenti esteri, vanno incrementati i controlli dei Paesi occidentali fra cui l’Italia: l’attività già capillare dell’Unità per l’Informazione finanziaria della Banca d’Italia, cui arrivano le segnalazioni di transazioni anomale dalle banche, è stata rafforzata. «L’obiettivo è sistematizzare e rafforzare il sistema sanzionatorio esistente», si legge nel sito dell’Uif.
La Fase 2 dell’uscita dalla crisi sarà il “nation building”. «Il primo obiettivo sarà garantire un collegamento tra Cisgiordania e Striscia», ragiona Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «In assenza di continuità territoriale si potrebbero sfruttare i corridoi stabiliti anni fa. Il collegamento tra le due aree è un fattore essenziale per la riuscita del piano di rinascita visto il diverso grado di successo economico». Sulla stessa linea si muove un report dell’Unctad, che afferma che la guerra ha riportato l’economia di Gaza al livello del 1999 e creato 300 mila nuovi poveri, e indica le misure dell’Onu per le economie minori, spesso circondate da ambienti ostili, «che sono sempre di più nel mondo per la nascita di nuovi Stati o semi-stati come il Kosovo, il Nagorno-Karabakh, la Palestina». La sfida, dice l’Unctad, è evitare l’isolamento internazionale che, da Timor-Leste fino a Cuba, comporta fame e sofferenze. Serve uno sforzo finanziario e di intelligence per fare di Gaza quel che non è mai stato: un’economia aperta agli scambi finanziari e commerciali con l’esterno, senza che attraverso questi passino armi.