Medio Oriente in fiamme

Così le scelte di Bibi Netanyahu hanno bruciato la carta al-Fatah

di Sabato Angieri da Tel Aviv   13 novembre 2023

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Gli Usa puntano su Abu Mazen, fautore dei due Stati. Ma la sua leadership resiste solo in Cisgiordania. Mentre Gaza, dal 2006, è sotto il controllo di Hamas. Con l’ok del premier e dei falchi israeliani

«Washington crede che l’Anp debba giocare un ruolo centrale in ciò che accadrà dopo la guerra a Gaza», ha dichiarato il segretario di Stato Usa Antony Blinken da Ramallah. E il motivo è chiaro: la Casa Bianca vuole eliminare Hamas da Gaza e favorire il ritorno dell’Autorità nazionale palestinese nel territorio attualmente martoriato dalle bombe israeliane. In seguito, almeno per quanto ne sappiamo oggi, l’amministrazione di Joe Biden tenterà di riproporre la cosiddetta «soluzione dei due Stati», stabilendo una volta per tutte i confini tra Israele e Palestina e avviando un processo di pacificazione forzata.

Un obiettivo estremamente ambizioso che si scontra con diversi ostacoli. Primo fra tutti: la mancanza di un interlocutore riconosciuto. Se è vero che Abu Mazen, il capo dell’Anp, è al momento l’unica figura in grado di simboleggiare un simulacro di rappresentanza politica in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, è altrettanto vero che dal 2006 Gaza è sotto il controllo di Hamas. Dopo l’ultima occupazione israeliana della Striscia, infatti, Hamas è diventato la forza preponderante a Gaza, imponendosi alle elezioni amministrative palestinesi del 2006 con il 44% circa dei voti. Al-Fatah, il gruppo guidato da Abu Mazen, a quella tornata elettorale non andò oltre il 41%, ottenendo ben 29 seggi in meno dei concorrenti. Tuttavia, fin da subito fu chiaro che quel voto sanciva in maniera netta la caratterizzazione geografica degli equilibri politici palestinesi. Hamas stravinse a Gaza e rimase forza di minoranza in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove invece al-Fatah ottenne la maggioranza. Fu subito chiaro che se i due partiti non si fossero accordati la situazione sarebbe potuta peggiorare da un momento all’altro. E infatti, nel 2007, la cosiddetta battaglia di Gaza portò alla cacciata di Fatah dalla Striscia e lasciò ad Hamas il pieno controllo del territorio costiero palestinese.

Diversi analisti israeliani, come Meron Rapoport, il giornalista della rivista online 972 (ma commenti simili si possono leggere sul quotidiano Haaretz), ritengono che la separazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza sia stata colpevolmente incoraggiata dal governo di Netanyahu, il quale riteneva che la vecchia strategia del “divide et impera” fosse quella vincente. «Netanyahu non solo ha adottato questo modo di pensare, ma vi ha anche aggiunto la conservazione del dominio di Hamas a Gaza come strumento per rafforzare la separazione tra la Striscia e la Cisgiordania», scrive Rapoport. «Nel 2018 – prosegue – ha accettato, ad esempio, che il Qatar trasferisse milioni di dollari all’anno per finanziare il governo di Hamas a Gaza, attuando i concetti espressi nel 2015 da Bezalel Smotrich (allora membro marginale della Knesset, oggi ministro delle Finanze) secondo cui “l’Autorità palestinese è un peso e Hamas è una risorsa”».

Rapoport non è l’unico a pensarla così. Una parte della sinistra israeliana e dei giornali d’opposizione stanno criticando quotidianamente le scelte del governo di Bibi e, oltre alla necessaria condanna delle atrocità del 7 ottobre, in molti ritengono che le terribili azioni dei miliziani di Hamas siano in parte conseguenza delle scelte politiche del governo di Tel Aviv. La ministra dell’informazione israeliana, Galit Distel Atbaryan, nel 2019, prima di entrare in politica al fianco di Netanyahu, aveva risposto così a chi le chiedeva perché il governo non inviasse l’esercito a smantellare Hamas nella Striscia di Gaza: «Se Hamas crolla, Abu Mazen potrebbe controllare la Striscia. Se la controllerà, ci saranno voci da sinistra che incoraggeranno i negoziati, una soluzione politica e uno Stato palestinese, anche in Giudea e Samaria (ovvero in Cisgiordania, ndr). Questo è il vero motivo per cui Netanyahu non elimina il leader di Hamas, tutto il resto sono stronzate».

Sulle mura della città vecchia di Gerusalemme sono proiettate le immagini degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre e trattenuti a Gaza

 

È evidente che in un contesto del genere Hamas non è un attore secondario. Dal 2007 fino a oggi l’organizzazione ha avuto tempo di consolidarsi sia politicamente sia militarmente. Gli attacchi al rave di Re’im e ai kibbutz israeliani ne sono la prova. Ora i civili di Gaza sono bombardati quotidianamente, i coloni israeliani non si fanno remore a effettuare spedizioni punitive nei villaggi palestinesi della Cisgiordania (come a Deir Sharaf il 2 novembre) e intanto il capo di Hamas, Yahya Sinwar, probabilmente si trova in Qatar mentre i suoi luogotenenti sono asserragliati nella rete di tunnel sotterranei del Nord della Striscia.

Chi biasimeranno per i morti e la distruzione i civili palestinesi? E, purtroppo bisogna chiederselo, quale sarà ricordata come l’unica azione militare di successo in territorio israeliano? Ovvio che in un contesto normale non si può ritenere un assalto sanguinario un “successo” militare, sia per le conseguenze tragiche sulle innocenti vittime israeliane, sia per la presenza di ostaggi che mentre questo pezzo va in stampa si trovano ancora segregati chissà dove. E anche perché, da un punto di vista strettamente tattico, di fatto, non ha prodotto alcun avanzamento nello scontro tra i miliziani di Hamas e l’esercito israeliano. Un risultato però l’ha ottenuto: ha ribadito che Hamas è presente e forte, mentre l’Anp se ne sta a Ramallah a gestire i fondi internazionali e, secondo diverse voci, ad approfittarne. Molti, anche in Palestina, sono convinti che i vertici di al-Fatah si siano ridotti a una cerchia che potremmo definire di oligarchi che non fa altro che gestire ingenti somme di denaro che regolarmente piovono dall’alto e che dovrebbero invece alleviare le sofferenze di un popolo già martoriato.

Ma gli Stati Uniti hanno bisogno di un interlocutore. Eliminato Hamas per ovvi motivi, resta solo l’Anp. Dunque si ritorna ad Abu Mazen. Il quale a conclusione della visita di Blinken ha dichiarato: «Ci assumeremo pienamente le nostre responsabilità ma nel quadro di una soluzione politica globale che includa tutta la Cisgiordania, comprese Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza». La condizione preliminare per ogni trattativa è la cessazione delle «aggressioni militari da parte dello Stato ebraico». Quest’ultima affermazione è necessaria per non alienarsi le già scarse simpatie di cui gode tra i compatrioti l’anziano leader. La prima per sottolineare che l’Anp è favorevole e pronta alla soluzione dei «due Stati». Aspetto non marginale se si considera che per poter formare l’ultimo governo Netanyahu si è circondato di ultra-ortodossi e nazionalisti totalmente contrari a ogni concessione territoriale. Gli stessi uomini politici che spesso hanno coperto i crimini dei coloni in Cisgiordania, dove il regime di occupazione è un ulteriore ostacolo a un eventuale processo di pace.

Ma Abu Mazen non ha mai avuto la forza per costringere queste comunità di israeliani ad abbandonare le terre arabe, e anche per questo la sua leadership negli anni ha perso seguito. L’obiettivo di Washington ora è di far dimenticare tutto ciò ai palestinesi, di permettere a Israele di eliminare Hamas, con l’aiuto della potentissima intelligence statunitense, e di trovare in breve tempo una soluzione che in 75 anni nessuno è riuscito a finalizzare.