In Cisgiordania la vita dei palestinesi è sempre più un inferno

L'attacco di Hamas a Israele di inizio ottobre ha peggiorato la già difficile situazione anche nell'altro territorio palestinese. Dove le azioni di polizia e le violenze dei coloni israeliani sono in aumento: «Nella città vecchia di Gerusalemme ogni giorno ti svegli ed è stato commesso qualche attacco, arresto o omicidio contro amici e familiari»

Mentre gli occhi del mondo sono puntati su Gaza, la violenza dilaga anche in Cisgiordania. «Nella città vecchia di Gerusalemme non si è mai visto uno stato di allerta del genere: i soldati sono dappertutto, i negozi sono chiusi, nessuno può rimanere per strada e i cellulari sono controllati per vedere se comunichiamo con Gaza o sui social», spiega Suhaib (nome di fantasia, che fa parte di un’associazione che lavora con giovani). «L’obiettivo è costringere le persone ad andare a vivere fuori dalla città per ridurre al minimo la popolazione palestinese. Ogni giorno ti svegli ed è stato commesso qualche attacco contro vicini, amici e familiari. Omicidi soprattutto di giovani, demolizioni di case, arresti, controlli sempre più stringenti e chiusure dei checkpoint, sono all’ordine del giorno. Viviamo sottoposti da sempre a questa violenza, ma questa volta è diverso: siamo a tutti gli effetti in uno stato di guerra».

 

Le voci dalla Cisgiordania riportano l’attualità del conflitto. La voglia di raccontare si scontra però con la paura: tutte le persone intervistate hanno infatti chiesto di rimanere anonime, perché temono ripercussioni. Secondo l’Ocha (Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite), dal 7 al 27 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi 103 palestinesi, tra cui 32 bambini e quasi 1.900 i feriti da parte delle forze militari o dai coloni israeliani.

 

Dopo il 7 ottobre, ci sono state numerose manifestazioni e scioperi per dimostrare vicinanza agli abitanti della Striscia di Gaza. In particolare, dopo il bombardamento dell’ospedale al-Ahli del 17 ottobre, migliaia di palestinesi sono scesi in strada, nonostante la repressione messa in atto dalle forze di polizia e dall’esercito israeliano.

 

La violenza parte da lontano e secondo gli osservatori internazionali è peggiorata dall’avvio del nuovo governo israeliano. Si stima che ci siano oggi tra i 600 mila e i 750 mila coloni israeliani che vivono in almeno 250 insediamenti illegali (130 ufficiali, 120 non ufficiali) nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est. Le colonie sono illegali secondo il diritto internazionale poiché violano la Quarta convenzione di Ginevra, che vieta a una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area occupata.

 

Palestinesi in piazza Menarah a Ramallah contro gli attacchi ai danni della Striscia di Gaza

 

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre la situazione è precipitata. Wadi al-Siq, ad esempio, è uno dei villaggi abitato da beduini palestinesi nella Cisgiordania che sono stati sfollati con la forza per consentire l’insediamento di nuovi coloni. E la violenza si estende in tutta l’Area C (sotto controllo israeliano), comprese le colline a Sud di Hebron, l’area a Est di Ramallah verso Gerico, la Valle del Giordano e Nablus. In Cisgiordania, fino al 7 ottobre erano 5.300 i detenuti palestinesi, mentre ora, secondo fonti locali, il numero sarebbe raddoppiato.

 

Quotidiani sono anche gli attacchi dei coloni ai villaggi e i raid dell’esercito nei campi rifugiati, come racconta a L’Espresso, Roya (nome di fantasia) che vive e lavora a Gerusalemme. «Per le persone che vivono nel campo di Shufat (a Gerusalemme Est, ndr), ormai ogni giorno è un giorno di conflitto. I soldati lanciano gas lacrimogeni mattina e sera. In pochi giorni sono state arrestate più di 100 persone e oltre 20 ferite durante raid notturni. Si tratta di ragazzi giovanissimi, adolescenti che stanno vivendo la situazione peggiore. Le scuole sono chiuse e tutte le attività per bambini/e sospese».

 

Hebron è un’altra città chiave. «La nostra vita è ulteriormente peggiorata – racconta Ali (nome di fantasia), operatore sociale – dal 7 ottobre solo qui 500 persone sono state prelevate dalle proprie case e arrestate. Hanno cercato chi ha pubblicato sui social, chi era accusato di simpatizzare per Hamas o chi era già stato in carcere. Gli accessi alle due zone della città sono controllati dall’esercito israeliano e anche i due campi profughi sono serrati. Si può entrare e uscire solo in rari casi. Stiamo vivendo un inferno, nessuno sa quello che succederà domani».

 

L’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) ha visitato i campi profughi a Nour Shams, Jenin e Aqbat Jaber. Qui, dopo le operazioni  dell’Idf (Israel defense forces) erano stati infatti segnalati danni alle infrastrutture private, «oggetto di ripetute e intense incursioni e cicli di violenza».

 

In tutta la Cisgiordania l’uso di Internet è controllato. Chi posta e denuncia la situazione online viene arrestato, come è successo nei giorni scorsi allo zio di Mohammed (nome di fantasia) a Ramallah, che lavora in una scuola d’arte. Adesso Mohammed è rimasto bloccato a Hebron e sta tentando di tornare a Ramallah attraversando le montagne.

 

La scuola è praticamente vuota: studenti e professori non riescono a venire perché le strade sono interrotte o bloccate dai coloni. «Stiamo pensando di fare qualcosa per aiutare Gaza, come una raccolta fondi, ma non sappiamo come recuperare i soldi. Vorremmo supportare la scuola di musica Edward Said National Conservatory. Ora tutto intorno all’Istituto c’è il deserto: solo la scuola è rimasta in piedi perché si trova vicino all’interno del palazzo del Palestinian Red Crescent building».

 

Mentre intervistiamo Mohammed per telefono ci racconta l’omicidio in diretta del suo vicino quindicenne: «Ho appena visto un ragazzino morire sotto i miei occhi. Dall’inizio dell’anno sono state uccise 300 persone dall’esercito e dai coloni. Abbiamo paura di un peggioramento della situazione, ma non possiamo spostarci perché i coloni stanno prendendo sempre più terra. Anche la Cisgiordania sta diventando una prigione».

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