La "colpa" storica della Shoah ha portato Berlino a considerare “ragion di Stato” il sostegno a Tel Aviv. E chi dubita viene investito dalle polemiche più aspre

«In questo momento per la Germania esiste un solo posto, quello dalla parte di Israele», ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz nel suo primo intervento al Bundestag all’indomani degli attacchi di Hamas. Un solo posto. Lo stesso indicato dalla cancelliera Angela Merkel già nel 2006 e poi ribadito in un suo intervento alla Knesset nel 2008. «La responsabilità storica della Germania è parte della ragione di Stato del mio Paese e questo significa che la sicurezza di Israele per me, come cancelliera tedesca, non sarà mai negoziabile», aveva detto davanti al Parlamento israeliano. Non solo un sostegno «senza se e senza ma», addirittura una «ragione di Stato».

 

Lo ha ribadito anche Scholz al Parlamento tedesco il 12 ottobre scorso: «La sicurezza di Israele è per la Germania ragione di Stato». La colpa storica del Paese si è trasformata, fin dagli anni Cinquanta, in prassi politica a sostegno di Israele, una prassi che con il tempo si è cristallizzata in dogma. Così si spiega l’atteggiamento di Berlino in queste prime settimane dallo scoppio del conflitto in Medio Oriente, riesploso dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre nei pressi della Striscia di Gaza. Ma cosa significa in una situazione del genere «ragione di Stato»? Se lo sono chiesto in tanti.

 

Per il deputato dei cristiano-democratici Roderich Kiesewetter significa «che la sicurezza di Israele e la nostra sono equiparabili», e quindi va difesa «se necessario a costo della vita», quindi inviando anche le forze armate. Secondo l’ex consigliere di Merkel e ora direttore della Conferenza di Sicurezza di Monaco Christoph Heusgen «la ragion di Stato» va intesa come «adottare le misure che Israele ci chiede. Cosa che è accaduta anche in passato: abbiamo fornito sottomarini, corvette, armi e munizioni e dovremo continuare a farlo», ci ha detto nel corso di un colloquio telefonico. «La questione di truppe tedesche sul campo non è stata finora richiesta da Israele e credo si tratti per ora di un esercizio retorico».

 

Ma c’è un altro modo di intendere la sicurezza, suggerisce l’ex diplomatico tedesco all’Onu: spingere Israele ad assumere un comportamento responsabile al livello internazionale. «Un ex ambasciatore israeliano in Germania una volta mi ha detto – ha continuato il suo ragionamento Heusgen – che la sicurezza di Israele come ragione di Stato dovrebbe essere interpretata anche come il dovere della Germania di spingere il governo israeliano a rispettare il diritto internazionale, perché il modo migliore di garantire la sicurezza è fare in modo che il diritto internazionale sia rispettato. Anche questo è il lascito della Seconda guerra mondiale». Per le sue posizioni eterodosse e per aver appoggiato pubblicamente le parole del segretario generale dell’Onu António Guterres all’Assemblea generale il 25 ottobre – «gli attacchi di Hamas non sono avvenuti in un vacuum» e «i palestinesi sono stati sottoposti a 56 anni di soffocante occupazione» – il direttore della Conferenza della sicurezza di Monaco è stato ostracizzato dal dibattito pubblico in Germania e lasciato in pasto all’ira dell’ambasciatore israeliano in Germania, Ron Prosor, che ne ha chiesto le dimissioni. Il caso Heusgen mostra bene un clima tutt’altro che rilassato in Germania, dove la polarizzazione amico-nemico è più accesa che mai. In queste settimane il tema antisemitismo e Israele in Germania è come i fili dell’alta tensione. Chi li tocca è compromesso. Diversi  esempi in appena due settimane di conflitto. Il primo in ordine cronologico è accaduto all’indomani dell’attacco di Hamas, con lo spostamento a data da destinarsi della cerimonia di premiazione all’autrice palestinese Adania Shibli per il libro “Un dettaglio minore”.

 

Da ultima, è altrettanto paradigmatica la vicenda di Fridays for Future. All’indomani dei post di Greta Thunberg su X in sostegno della Palestina e di Fridays for Future International, il volto del movimento in Germania, Luisa Neubauer, ha scritto in un post lapidario: «No, l’account internazionale – come già detto – non parla per noi. No, il post non è concordato con noi. No, non siamo d’accordo sul contenuto». Questa presa di distanza non è stata sufficiente e lo sdegno di gran parte dell’opinione pubblica tedesca per Fridays for Future Germania si è allargato a macchia d’olio, nonostante Neubauer avesse partecipato a una manifestazione in sostegno di Israele alla Porta di Brandeburgo. La riprovazione generale ha richiesto un ulteriore intervento da parte della giovane leader di Fff che alla Dpa ha detto: «Ci distanziamo con forza dai post antisemiti sui canali social internazionali» e «ci allarma vedere come questi canali siano stati abusati da pochi, per condividere disinformazione e antisemitismo». Nonostante questo, l’attivista tedesca è stata attaccata ancora dalla ministra dell’Ambiente Steffi Lemke, forse ansiosa di riguadagnare ai Verdi i voti perduti tra le giovani generazioni.

 

Julia, giornalista tedesca quarantenne, ci offre  una spiegazione. «Appena ascolto i miei amici di sinistra e sento arrivare una critica a Israele che mi suona anche lontanamente antisemita prendo le distanze», racconta. È un riflesso che dice: «Mai più fascismo, mai più antisemitismo» (nie wieder). È radicato questo riflesso, spiega Julia, tanto quanto la sua identità tedesca. Al liceo ha partecipato a un seminario di Formazione politica di quattro giorni sulla Shoah ad Auschwitz. Non una scampagnata. Questo condizionamento fa dei tedeschi i più fedeli alleati di Israele.