Intervista

Proteste in Perù, repressione sempre più violenta. «Per fermare la rabbia del Paese servono elezioni subito»

di Chiara Sgreccia   15 febbraio 2023

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Circa sessanta morti, centinaia di feriti. Ma la repressione del Governo non ferma i manifestanti, che bloccano strade, aeroporti e aziende. Il politologo Dargent: «Indigeni e popolazioni rurali non vogliono più essere invisibili»

Circa sessanta morti, quasi tutti civili. Centinaia di feriti. Le proteste in Perù vanno avanti dallo scorso 7 dicembre, quando Dina Boluarte, la prima donna a guidare il Paese, ha preso il potere. Dopo il fallito golpe dell’ex presidente Pedro Castillo migliaia di persone sono scese in piazza, non solo nella Capitale Lima ma soprattutto nelle aree rurali e più povere dello Stato.

Hanno bloccato strade, aeroporti e importanti siti estrattivi. Anche la principale località turistica del Paese, Machu Picchu, è rimasta chiusa al pubblico per mesi e sta riaprendo in questi giorni.

I manifestanti chiedono la liberazione dal carcere di Castillo, ex maestro elementare, sindacalista, che ha vinto le elezioni presidenziali a luglio 2021. Ma anche una nuova Costituzione e di porre un freno alle enormi disuguaglianze che segnano la società. Boluarte era la vice di Castillo e il Governo che guida dovrebbe essere di transizione. Però, come spiega Eduardo Dargent, professore di scienze sociali alla Pontificia Università Cattolica del Perù: «È stata molto lenta nel dire che ci sarebbero state nuove elezioni. Ancora oggi il Congresso non ha trovato un accordo per indirle. Questo ha fatto crescere la rabbia». Le proteste sono diventate violente, la repressione ancora di più.

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Perché Castillo ha tentato il colpo di Stato se era già presidente?
«Quel giorno il Congresso avrebbe discusso della possibilità di rimuoverlo dall’incarico, ma non c’era un rischio reale. È difficile, quindi, comprendere le motivazioni che hanno portato a tentare il golpe. Credo l’abbia fatto per mancanza di capacità di governo, come si è visto in tante altre azioni che ha condotto durante la presidenza, non ha esperienza politica. Era chiaro che avrebbe fallito: non aveva sostegno negli altri rami del Governo, nessun appoggio nelle forze armate. Non era abbastanza popolare».

Allora perché la sua incarcerazione ha scatenato proteste così violente?
«È stato un errore della neopresidente e del Congresso celebrare l’arresto di Castillo: invece di indire subito nuove elezioni sembra che vogliano restare al potere. In piazza, infatti, ci sono tutti quelli che non condividono le politiche del Congresso, che è vicino alla Destra e considerato espressione degli interessi di Lima, distanti dalle esigenze di chi vive fuori dalla Capitale. I manifestanti sono uniti dal desiderio, condiviso da oltre il 70 per cento della popolazione, di nuove elezioni, dalla volontà di riscrivere la Costituzione visto che l’attuale è stata redatta dall’ex dittatore Alberto Fujimori. E dalla voglia di contrastare la corruzione, rendere la crescita economica più equa. Quando con la violenza le forze dell’ordine hanno cercato di fermare le proteste, queste sono diventante ancora più forti. Perché è cresciuta la rabbia della popolazione che già aveva ritenuto scorretto e antidemocratico non avere più Castillo come presidente visto che era stato eletto».

L’instabilità politica si tradurrà anche in fragilità economica?
«Per molto tempo il Perù è stato un paradosso: stabilità economica e instabilità politica sono state in grado di convivere. Molti problemi del Paese, infatti, sono il risultato dei cambiamenti sociali non regolamentati che ci sono stati dagli anni 2000, da quando c’è stato il boom economico. Hanno portato enormi disuguaglianze nella società e al proliferare di attività informali e illegali. La situazione attuale non è determinata solo dal malcontento della grande fascia di popolazione che vive in condizione di povertà ma anche dalle aspettative dei lavoratori che pretendono benessere».