L’Unione europea importa pollame dalla Thailandia, dove l’industria usa immigrati cambogiani pagandoli meno di 200 euro al mese per 10 ore di lavoro al giorno in condizioni disumane: «Serve fissare un regolamento per evitare lo sfruttamento di persone e ambiente»

Con il caldo l’odore del sangue diventa più acre. Accanto a Phea i bambini saltano i sacchi di plastica pieni di pollo, appoggiati sul pavimento di cemento crepato da cui trabocca la terra. Al gioco partecipano anche un meticcio scodinzolante e una madre che insegue il più piccolo dei suoi bambini. La temperatura è di quasi 40° anche se sta per piovere. Due uomini tirano i sacchi dentro al furgone all’ingresso dell’azienda, altri finiscono in un congelatore scoperchiato da ore.

 

Phea taglia il pollo senza alzare lo sguardo: senza sforzo, assuefatta, in silenzio. Con una mano sposta la lama, con l’altra avvicina le ossa. Un guanto è di stoffa, l’altro di plastica rotta.

 

Dorme a poche centinaia di centimetri dal tavolo sporco di sangue rappreso su cui trascorre 10 ore al giorno, per uno stipendio di 190 euro al mese. Dentro a una baracca di lamiera, con il materasso che occupa tutto lo spazio e l’armadio diffuso lungo le pareti.

Foto di Watsamon Tri-yasakda per WeWorld

«Sono arrivata a Saraburi, in Thailandia, due anni fa alla ricerca di un’occupazione», racconta la lavoratrice d’origine cambogiana, cresciuta in un villaggio vicino al confine poroso tra i due Stati. Vive dentro la piccola azienda, con altri lavoratori e le loro famiglie. Sono tutti stranieri. Non ha tempo libero, non ha vita privata. Non ha documenti, un’assicurazione sanitaria, un contratto, un mezzo di trasporto per raggiungere il mercato attraverso la strada a scorrimento veloce che arriva fino a Bangkok. I figli non vanno a scuola. Così per ogni necessità dipende dalla datrice di lavoro.

Foto di Watsamon Tri-yasakda per WeWorld

Phea non conosce il nome della sua posizione lavorativa ma trita il pollo, uno degli step della filiera avicola: dall’allevamento alla produzione della carne. Che anche l’Europa importa, nel 2021 la Thailandia era il terzo fornitore di pollame dell’Ue. Un settore che cresce attira sempre più lavoratori: i cambogiani emigrati nel Regno di Maha Vajiralongkorn sono almeno un milione, alla ricerca di condizioni di vita migliori. Perché, sebbene i ritmi di lavoro siano estenuanti e i diritti scarsi, i soldi servono.

 

«Anche per ripagare il debito che la maggior parte di noi contrae quando lascia casa per una nuova occupazione», racconta Nu dal mercato di Lopburi, pieno di lavoratori che, appena finito il turno nella grande azienda di pollame a poche centinaia di metri, passano per fare la spesa. Sono colleghi di Nu, ne riconosce alcuni con cui scherza prima che montino sui motorini e sfreccino via alzando una nuvola di polvere bianca. 

Foto di Watsamon Tri-yasakda per WeWorld

A pochi passi dal mercato, alla fine di una salitina fatta di terra e fango, ci sono i palazzoni che ospitano i lavoratori, quelli che non possono permettersi una residenza privata. «Ci detraggono il costo dell’affitto direttamente dallo stipendio. Così come quello delle bollette, dell’assistenza sanitaria, i soldi necessari per i documenti che ci servono per stare in Thailandia. Alla fine quello che mi resta per vivere è poco, anche perché mando una parte dei guadagni alla mia famiglia in Cambogia. Ma non importa: esco poco, non ho tanti amici. Mi sono trasferita per lavorare e fare soldi, ed è quello che sto facendo. Non mi interessa un’occupazione migliore, un avanzamento di carriera, non voglio più responsabilità», conclude la lavoratrice impiegata nella filiera del pollo, senza un contratto a quanto dice, in una delle aziende più grandi e conosciute del Paese.

Foto di Watsamon Tri-yasakda per WeWorld

Nu ha 35 anni ed è arrivata a Lopburi 6 anni fa da Phnom Penh, la capitale del Regno di Cambogia: «È stato difficile andarmene, ogni volta che torno a casa scoppio a piangere. Ma ormai la mia vita è questa, ho scelto così». Dorme in una stanza con altre tre colleghe sui materassi bassi che poggiano sul pavimento. Per cucinare utilizza un’apparecchiatura simile ai fornellini da campeggio. Quando è in fabbrica, durante il turno, altre quattro lavoratrici occupano i posti nella camera da letto per riposarsi. Per ottimizzare tempi e spazi. 

 

«Con la Corporate sustainability due diligence directive, che il 1° giugno ha incassato il voto favorevole del Parlamento, l’Unione europea, si impegna affinché le aziende tutelino l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Non solo per la propria attività ma anche per quelle dei partner nella catena del valore. L’economia dovrà essere sostenibile anche nei territori extra-Ue dove spesso le legislazioni sono meno capaci di tutelare questi aspetti», spiega Margherita Romanelli, coordinatrice policy e advocacy di WeWorld, e della campagna #OurFoodOurFuture, che contrasta le conseguenze del lavoro minorile, sfruttamento, degrado ambientale.

 

Per far sì che le aziende rispondano dell’impatto che generano sulle persone e sul pianeta e per garantire l’accesso alla giustizia alle vittime degli abusi, con particolare attenzione ai soggetti più vulnerabili come donne, migranti, e popolazioni indigene, We World ha aderito anche alla campagna “Impresa 2030: Diamoci una regolata”. «Un’azione urgente perché i comportamenti scorretti danneggiano tutti, incluse le  imprese virtuose che subiscono una concorrenza sleale». 

 

Come chiarisce Romanelli, si tratta una necessità chiara soprattutto ai più giovani che nel 77 per cento dei casi, si capisce da un’indagine condotta da WeWorld, pensa che le attuali abitudini di consumo non siano sostenibili.

Foto di Watsamon Tri-yasakda per WeWorld

«E che sia necessario un modello economico diverso e più sostenibile. Così la direttiva punta a fare in modo che le aziende adottino condotte responsabili e rispettose dei diritti umani e dell’ambiente. Prevenendo le pratiche di sfruttamento, imponendo sanzioni. Garantendo risarcimenti a chi subisce le violazioni. Ma il lavoro da fare è tanto, come le lacune da colmare. Anche in vista del dialogo tra Commissione, Parlamento e Consiglio dell’Ue». Per fare in modo che i diritti non abbiano un valore diverso sulla base del Paese di provenienza. Ma anche per frenare la concorrenza sleale.

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