I contraccolpi del crollo di Evergrande giungono a noi: è un altro effetto della globalizzazione. Così l’instabilità di quel capitalismo di Stato investono la nostra economia

Un battito d’ali di farfalla a Tokyo può far crollare la Borsa di New York. Ripetevamo a pappagallo questa formula, mutuata dall’ecosistema e applicata alla finanza, alludendo all’interconnessione stretta di un sistema capitalistico che includeva soltanto i Paesi liberali a democrazia matura o in via di consolidamento, il Nordamerica, l’Europa e laggiù nel Sol Levante, soltanto il Giappone, incluso dopo Hiroshima e la guerra persa.

 

Tocca ora, a dimostrazione di come sia cambiato il mondo, sostituire Tokyo con Pechino e trattenere il fiato per la crisi cinese, la crisi del modello opposto al liberismo cioè il capitalismo di Stato, valutare il possibile contagio peraltro nelle dimensioni non ancora così chiaro nemmeno agli analisti più esperti. E tuttavia, già ora, già qui, si può considerare che la farfalla impazzita nei cieli del Dragone sta producendo, se non un uragano, almeno un forte temporale ad esempio sulla Borsa di Milano, nel suo agosto nero segnato dai nove miliardi di capitalizzazione persi per la decisione del governo Meloni di tassare gli extraprofitti delle banche. Da destinare, secondo proclama, ai poveri e vedremo se sarà così, intanto ha prodotto il salasso nei risparmi del sempiterno parco buoi di Piazza Affari, il ceto medio.

 

La Cina è pioggia sul bagnato, non inaspettata ma non per questo meno dannosa. È l’ennesimo effetto negativo della globalizzazione sregolata, salutata ai suoi esordi, dopo la caduta del Muro di Berlino e la promessa di un nuovo ordine di prosperità e progresso, come una panacea, il benessere diffuso antidoto dei conflitti, la scomparsa del nemico, soprattutto l’Unione Sovietica. Circolava uno slogan venduto come un dato reale e immutabile: «Non si sono mai fatti la guerra due Paesi in cui c’è un McDonald’s». Abbiamo imparato poi che ai negozi si possono cambiare le insegne.

Restava l’incognita della Cina dell’immoto potere del comitato centrale. E la Cina si adeguò a modo suo suscitando semmai qualche preoccupazione di carattere ecologista quando il suo sviluppo si fece impetuoso: «Cosa succederà se un miliardo e passa di cinesi vorranno avere il frigorifero?». Un miliardo di emissioni capaci di allargare il buco dell’ozono! E quanto gas serra avrebbero prodotto un miliardo in più di automobili? Ma erano declassificate a quisquilie, egoismi di ricchi che il pianeta lo avevano già dilapidato, davanti all’enorme mercato che si apriva per il nostro export. E, all’opposto, ai vantaggi per il consumatore della merce a basso costo, una t-shirt a dieci euro, vuoi mettere?

 

C’era quel dettaglio dello sfruttamento dei lavoratori, della totale mancanza di diritti. Si sarebbe risolto, si diceva, nel giro di un paio di generazioni, perché la storia delle rivoluzioni industriali era lì a spiegare che, a mano a mano si produce più ricchezza, nascono le rivendicazioni sindacali e presto il dumping sociale sarebbe stato colmato. Il tempo si è peritato di dimostrare che non erano tutte rose.

 

L’offerta di mandopera su scala mondiale, che eccedeva di gran lunga la domanda, andava a tutto discapito dei salariati per una legge basilare dell’economia. Dunque, se i cinesi hanno fatto qualche piccolo passo sui diritti, nell’Occidente largamente inteso si sono perse di gran carriera le conquiste costate anni di dure lotte, mentre la delocalizzazione delle aziende provocava una preoccupante deindustrializzazione, tanto da indurre, ad esempio gli Stati Uniti di Barack Obama, perciò bollato come “socialista”, a sussidiare i grandi gruppi purché non se ne andassero dove il costo del lavoro era più basso.

 

La Cina era entrata nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio (anno 2001, quello del crollo delle Torri Gemelle), comprava quote crescenti del debito pubblico americano, fino a toccare più del 25 per cento del totale ora ridotto della metà, era il gigante addomesticato nel nome del profitto e anche la stampella su cui si appoggiava la crescita complessiva. E la Russia, il Paese degli oligarchi, senza ambizioni egemoniche in politica estera, coltivava persino l’idea di entrate nella Nato. Fino a Vladimir Putin e al nuovo dualismo del mondo tra democrazie e dittature, di nuovo la guerra, l’Ucraina e le tensioni per Taiwan, la cartina di tornasole del fatto che i comuni interessi non producono la pace.

 

A dispetto del risorgere delle inimicizie, resta l’economia intrecciata, la farfalla di Pechino che sbatte le ali è il colosso dell’immobiliare Evergrande (Marcello Lippi ai bei tempi dell’espansione senza limiti fu allenatore vincente della sua squadra di calcio), con un debito di 340 miliardi di dollari, che ha presentato a New York istanza di protezione dal fallimento. Ha almeno altre due farfalle che annaspano accanto. Country Garden, maggior costruttore privato di case, non ha pagato per tempo le cedole su alcune obbligazioni collocate all’estero e si teme per il suo debito da 200 miliardi di dollari. Infine Zhongzhi International, uno dei trust più importanti non ha effettuato i pagamenti di circa trenta prodotti di gestione patrimoniale per i problemi di liquidità del suo azionista di controllo.

 

Il coinvolgimento di attori finanziari evoca quanto successo nel 2008 con il fallimento della banca Lehman Brothers, sommersa dai mutui subprime concessi alle famiglie e impossibili da esigere. I paragoni sono ovviamente tutti zoppi, ma le analogie sono evidenti. Tanto da chiederci adesso: messi sulla bilancia i costi e i benefici, è stato conveniente o no aggregare la Cina sul carro del mercato? Un dato è certo: quest’ultima crisi allarga la schiera dei perdenti della globalizzazione.