Scenari
Adesso cosa succede con la guerra in Ucraina
Mentre Putin è saldo al potere, la Nato detta tempi e obiettivi all’esercito ucraino. E Zelensky per la prima volta parla di soluzione “politica”. Per questo il conflitto forse è a una svolta
A pochi metri dalla Piazza Rossa di Mosca c’è un piccolo memoriale che il fine settimana scorso si è riempito di fiori, candele e piccole offerte. Sul muretto le foto di Evgenij Prigozhin, il capo della compagnia di mercenari Wagner, quelle del suo secondo, il neonazista Dmitrij Utkin, e tanti striscioni e manifesti con i simboli del gruppo.
Due giorni prima che il governo russo confermasse definitivamente l’identità delle 10 vittime dello schianto dell’Embraer Legacy 600, precipitato mercoledì 23 agosto a Tver durante un volo tra Mosca e San Pietroburgo, le manifestazioni di cordoglio verso uno dei personaggi più discussi degli ultimi mesi erano già iniziate. Avvenimenti del genere sembrano sospendere il tempo della guerra. Come se per qualche giorno i missili russi non cadessero più sulle fabbriche ucraine o i droni non volassero minacciosi verso Mosca. E spesso capita che in tali occasioni ai colpi di scena seguano dichiarazioni inattese.
La settimana scorsa avevamo scritto dei malumori statunitensi sulla lentezza della controffensiva ucraina e sull’eventualità che la guerra debba risolversi con un negoziato, magari incentrato sulla Crimea. Ora il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dichiara che «è preferibile e possibile negoziare una soluzione politica per la Crimea piuttosto che riportarla sotto il controllo ucraino con la forza militare». Un insolito e repentino cambio di tono rispetto al «ritorno ai confini del ’91» a tutti i costi. Difficile non ricondurre tale cambiamento alle pressioni alleate. Inoltre, negli ultimi giorni gli Usa hanno ribadito di non gradire gli attacchi ucraini sul territorio russo, ma stavolta niente rimostranze: Zelensky ha definito «un grosso rischio», contrariare i partner internazionali che sono un fattore determinante per ogni vittoria, «verremmo senz’altro lasciati soli». E sull’eccessivo uso della legge marziale, con i timori per la svolta autoritaria del governo centrale di Kiev, Zelensky ha addirittura aperto alle elezioni parlamentari per l’anno prossimo spiegando che, tuttavia, per le elezioni servono fondi e sostegno da parte degli alleati internazionali.
Intanto a Mosca si era fatta sera e la folla discreta che aveva reso omaggio a Prigozhin e alla brigata Wagner si era dileguata. Nulla di eclatante, il rischio di attirarsi le attenzioni indesiderate dei poliziotti nei paraggi ha di certo frenato gli slanci di commozione. Ma la forza pubblica non poteva impedire la commemorazione di quelli che nella Russia contemporanea sono stati dipinti come eroi. Il memoriale, infatti, era nato mesi fa per commemorare il blogger militare Vladlen Tatarsky, morto ad aprile a causa di un attentato dinamitardo in un bar di San Pietroburgo: aveva poi ospitato le immagini di Daria Dugina, esplosa un anno fa a bordo di un’autobomba che aveva come obiettivo il padre Aleksandr (un filosofo nazionalista russo) e si era arricchito di bandierine e piccoli messaggi di sostegno ai militari impegnati nel conflitto. Ora anche Prigozhin, sebbene qualcuno sia ancora convinto che la sua morte sia una messinscena, è assurto all’olimpo dei «martiri per la patria».
I suoi videomessaggi contenenti insulti per l’odiatissimo ministro della Difesa, Sergei Shoigu, per il comandante in capo delle truppe russe impegnate nell’Operazione militare speciale, Valerij Gerasimov, e per la corruzione all’interno delle forze armate sono già leggenda in Russia. Quel populismo fatto di urla e accuse ai «traditori della patria» ha lasciato il segno tra chi lo considera come una vittima dell’apparato statale, un personaggio scomodo messo a tacere perché «diceva la verità».
Già, proprio la verità. Che per un oligarca russo arricchitosi all’ombra di Putin e diventato celebre grazie a una compagnia di mercenari sanguinosi chissà cos’era. L’interesse, la brama di potere, la cupidigia o l’opportunismo che lo hanno spinto a intervenire in contesti come la Siria, il Centrafrica, la Libia, il Sudan e a fornire il proprio appoggio al leader golpista o al governo liberticida di turno. Il tutto all’ombra del Cremlino, godendo di uno status mai davvero ufficializzato, ma reso palese solo dall’invasione russa dell’Ucraina. A Bakhmut la Wagner si è svestita dei panni della brigata di mercenari che, per definizione, combattono per il miglior offerente, per presentarsi come un esercito di crociati. Con uno stile misto di patriottismo ottocentesco, aggressività populista contemporanea e sciovinismo buono per tutte le stagioni Prigozhin ha arringato la rete presentando di volta in volta i mali della Russia moderna e lasciando intendere di essere l’unico rimedio. Come si spiegherebbe altrimenti la libertà di cui quest’uomo ha goduto per mesi in un Paese come la Russia? Prigozhin ha potuto accusare di vigliaccheria e tradimento i soldati dell’esercito regolare russo nella totale impunità e, al contempo, insinuare che la Difesa stesse tentando di sabotare le operazioni dei suoi uomini al fronte. Si è permesso di chiamare Putin, colui che in occidente ormai quasi tutti chiamano «lo zar», nonnetto. Un vecchio rimbambito a cui gli arrivisti incompetenti stavano nascondendo la verità (!) e che stava guidando una Russia allo sfacelo. Il nonnetto però non ha mai risposto, d’altronde, com’è tradizione, il sovrano non parla con i sottoposti. Anzi, ha usato la Wagner fino all’ultimo momento, riuscendo a evitare una nuova mobilitazione (troppo pericolosa per l’ordine pubblico) e mandando a morire mercenari ed ex-galeotti. Poi, al momento giusto, tramite i suoi vassalli, ha preteso la sottomissione: ogni milizia avrebbe dovuto sottoporsi al potere statale.
Prigozhin non ha accettato e deve aver pensato che il momento era propizio. Il tentato colpo di stato ne è la prova ed è il climax di questa tragedia. L’antagonista gioca il tutto per tutto ma il suo sforzo è inutile, ha già perso. È terribile pensare che esistano ancora realtà politiche in cui il potere è talmente radicato da sostituirsi al destino. Non a caso, il giorno dopo lo schianto dell’aereo della Wagner, il presidente Putin ha dichiarato: «Prigozhin era un uomo di talento che ha fatto errori, dal destino difficile». Solito sguardo di ghiaccio, solita espressione atarassica. Commiato pubblico, «abbiamo già avviato le indagini, i colpevoli saranno assicurati alla giustizia», biasimo per l’Occidente e capitolo archiviato. Con buona pace di tutte le cassandre che da mesi irridono lo zar «ormai indebolito e accerchiato» o, addirittura, «prossimo alla caduta».
Ora, gli stessi, scrivono che «l’attentato a Prigozhin è un segno di debolezza». Ma a voler cercare segni di debolezza nel potere moscovita si perde di vista un fatto: lo schianto dell’Embraer Legacy 600 di Prigozhin dimostra che alla corte del Cremlino la struttura del potere è ben salda, almeno per ora. Come ha sardonicamente dichiarato il presidente Usa, Joe Biden, «non sono sorpreso» in quanto «in Russia non si muove quasi nulla senza la volontà di Putin». Del resto, non tutti fanno la fine di Prigozhin perché finora nessuno aveva avuto il suo ardire, questo gli va riconosciuto. Per citare un caso esemplare, Putin di recente ha destituito da capo delle forze aerospaziali uno dei suoi migliori generali: Sergei Surovikin, l’architetto delle impenetrabili linee di difesa russe nel sud dell’Ucraina.
Una piccola crepa, da verificare, potrebbe essersi aperta a inizio settimana. I soldati ucraini hanno riconquistato il villaggio di Robotyne, a sud di Zaporizhzhia, lungo la direttrice che porta a Melitopol e al Mar Nero (obiettivo dichiarato della controffensiva ucraina). Robotyne si trova poco a sud di Orikhiv, da dove gli ucraini sono partiti tre mesi fa. Per alcuni si tratterebbe del risultato più importante ottenuto nella manovra in corso dagli uomini di Zelensky in quanto permetterebbe di superare la prima linea di fortificazioni russe. Per altri è la conseguenza dei colloqui segreti tra i capi delle forze armate ucraine e i vertici Nato, i quali hanno chiesto «più rapidità d’azione» e «più risultati».
Tuttavia è presto per una valutazione, soprattutto dato che in questi mesi abbiamo assistito sovente ad avanzate e ripiegamenti nello stesso fazzoletto di terra e nello spazio di pochi giorni. Gli ucraini dichiarano di attendere che si crei una breccia nelle trincee nemiche, utile al tentativo di sfondamento «vero e proprio» con i reparti addestrati nei Paesi occidentali durante l’ultimo anno. Ma non è più il tempo delle dichiarazioni, la Nato vuole risultati, altrimenti si dovrà trovare una soluzione alternativa allo scontro militare e, come si intuisce, l’Ucraina sarà costretta a cedere qualcosa.