Mohammed cammina a passo lento tra i vicoli di Shatila, campo profughi palestinese confinato alla banalità della periferia ovest di Beirut, non-luogo logorato da decenni di assenze e rinunce, da sempre alla mercé dell’oblio dei potenti. Dove, il 16 settembre 1982, gli uomini delle milizie cristiano-falangiste libanesi guidati da Elie Hobeika, per vendicare l’assassinio del neoeletto presidente libanese Bachir Gemayel avvenuto due giorni prima, compiono una strage con il tacito accordo delle forze israeliane. Due giorni di lotta e sangue, passati alla storia come «il massacro di Sabra e Shatila», che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite definirà poi «un genocidio», in cui a morire è un numero mai precisato di civili palestinesi e di sciiti libanesi.
«A terra, nel salotto di casa, trovai il corpo di mia madre riverso a pancia in giù accanto a quello di mio padre e ai corpi dei miei cinque fratelli», ricorda Mohammed Srourd , all’epoca poco più che ventenne. «I miei vicini furono decapitati, i corpi lasciati con le mani legate. E poi, altri cadaveri buttati in strada, neri e gonfi, ammassati gli uni sugli altri, dopo essere stati violentati… non riesco a dire altro».
Con lui, quel giorno, c’era sua sorella, di poco più giovane, anche lei sopravvissuta, ma che da allora non ha più parlato. Fissa le foto di Yasser Arafat, kufiya bianca e nera sul capo, imprescindibile icona palestinese. Yasser – il “cordiale” – prima a capo di Fatah, poi storico leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, lottò per la causa nazionale con l’obiettivo di creare uno Stato indipendente per il suo popolo. Dopo anni di lotta armata, intercede la diplomazia. Ma la stretta di mano tra il “rais” e l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin nel giardino delle rose della Casa Bianca, ovvero l’impegno a lavorare per la pace siglato negli accordi di Oslo ad inizio anni Novanta, naufraga con l’ascesa della destra nazionalista israeliana del Likud, e del suo leader Benjamin Netanyahu, assieme all’avanzata dei fondamentalisti di Hamas. Lo stallo nei negoziati infiamma i Territori Palestinesi; tra il 2000 e il 2005 scoppia la Seconda Intifada, anni di terrore.
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Nel 2006, due anni dopo la morte di Arafat, il Movimento della resistenza islamica vince le elezioni palestinesi a discapito di Fatah, accusata di sperpero e corruzione, l’Autorità nazionale palestinese, con il suo Mahmoud Abbas, perde consensi e, nel 2007, Hamas, con un golpe, impone il proprio controllo politico sulla Striscia di Gaza. Da allora, negli ultimi 15 anni, quattro operazioni militari israeliane nell’enclave palestinese e cinque giorni di scontri con il Jihad Islamico a maggio 2023. E poi, arriva il sabato nero. Con la furia dei miliziani di Nuvka, reparto scelto di Hamas, che all’alba del 7 ottobre, aprono uno squarcio nella barriera tra Gaza e il Sud di Israele, assaltano i kibbutzim, freddano 1.400 persone e ne catturano oltre 200. L’esercito di Tel Aviv, colto di sorpresa, risponde all’attacco. È guerra.
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Da oltre due mesi e mezzo le immagini atroci di morte e devastazione rimbalzano sugli schermi delle tivù smuovendo l’ombra del passato degli oltre trentamila profughi palestinesi confinati nell’eterno castigo di Sabra e Shatila, mentre gli scontri a fuoco lungo il confine tra Libano e Israele fanno temere un conflitto più ampio. «I bombardamenti su Gaza, i civili che muoiono ogni giorno, gli sfollati… tutto ricorda il nostro drammatico passato, il massacro che, forse, potrebbe ripetersi se la comunità internazionale non si decide a fermare l’ennesimo genocidio portato avanti dai Sionisti», afferma Jamila Shehadeh, manager di Beit Atfal Assumoud, una Ong che si occupa dei bisogni dei rifugiati a Shatila. «Molte persone hanno paura. Eppure, molti sono pronti a unirsi alla Resistenza», sostiene Mohammed Khatib, fondatore del Museo della Memoria del campo. «Siamo arrivati qui, nel 1948, con la forza delle armi. Il governo israeliano ci vuole schiavi, ma noi lotteremo per i nostri diritti e arriverà il giorno in cui torneremo in Palestina. Costi quel che costi».
La risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu del 1948 sanciva il diritto dei palestinesi al ritorno nei territori del Mandato di Palestina – oggi in parte Israele. E da allora, quel diritto è sempre stato ribadito dalle Nazioni Unite. Un diritto, nella forma originaria, inaccettabile per Israele, che negli anni ha aperto alla possibilità di un ritorno nei territori di un futuro Stato palestinese, ma non all’interno dei suoi confini. Così, la questione è sempre stata tra le più complesse da dirimere, in grado di far saltare tutti i tavoli negoziali e abbandonando centinaia di migliaia di persone – i primi rifugiati e i loro discendenti – a dover scegliere tra campi profughi o diaspora.
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Il fardello della vita, con le sue ansie e i suoi timori, rimbomba tra le mura dei palazzi consumati dal tempo. Alti, grigi, decadenti. Dove i più piccoli trovano sollievo nel rincorrersi sulle gradinate delle facciate lasciate a metà, tra grovigli di cavi elettrici e il rosso, il nero, il bianco e il verde delle bandiere palestinesi accanto agli stendardi verdi di Hamas mossi dal vento. Ma nella verticalità dello spazio, l’eco della memoria, spesso, si somma alla sete di rivendicazione, aumentando la radicalizzazione dell’opinione pubblica, che si sente tradita e crede sempre meno a soluzioni politiche o negoziali. «Hamas è un vero movimento di resistenza palestinese. Sta portando avanti quello che ognuno di noi, nel campo, vorrebbe fare», tuona Mahmoud Ashem, nato e cresciuto a Shatila. «Se Israele dovesse attaccare il Libano, è dovere di ogni palestinese far parte della Resistenza. Ed io sono uno di loro».
Il messaggio è chiaro. Tra disperazione, abbandono politico e nostalgia, i palestinesi come Mahmoud vedono in Hamas l’unico strumento – per loro – per liberare quella che considerano la loro terra: la Palestina. E proprio qui, nei campi di un Libano instabile – dove gli scontri a fuoco transfrontalieri tra gli uomini armati di Hassan Nasrallah e l’esercito con la stella di David vanno avanti dall’8 ottobre – Hezbollah, movimento libanese sciita alleato dell’Iran, ha un ulteriore bacino di reclute pronte ad intervenire nel caso in cui la guerra tra Hamas e Israele dovesse estendersi alle porte di Beirut.