Le parole del Capo e quella sensazione di vivere un déjà vu

Un leader in cerca di riscatto. Che minaccia chi non si allinea al suo grande piano. Una storia già vista

Con la vittoria alle ultime elezioni, il capo di una delle più importanti Nazioni del mondo aveva avuto la sua rivincita. Era stato eletto con una promessa, quella di rendere la sua Nazione grande come lo era stata in passato. Quella Nazione, aveva detto, era decaduta, afflitta dalla corruzione imperante e da una perdita dei valori tradizionali su cui era stata basata la sua storia. In quella campagna aveva ripetutamente additato i principali colpevoli di questa situazione: persone che venivano dall’estero e approfittavano della buona fede dei suoi connazionali. Ma non erano i soli colpevoli. C’erano anche tante Nazioni europee che si erano comportate male, molto male. Soprattutto Francia e Gran Bretagna, con quei leader presuntuosi ma fondamentalmente deboli. Poteva andare d’accordo solo col capo del governo italiano, con cui si era incontrato subito dopo l’elezione. E poi c’era la Russia, un tempo nemica, ma con cui ora occorreva siglare un Patto per risolvere la questione dell’Est Europa: anche quella Nazione era guidata da un uomo forte, con cui però ci si poteva intendere, certo nell’immediato perché alla lunga sarebbero emersi problemi anche con quello.

Prima dell’elezione aveva passato anni difficili. Tutto era partito da quel discorso in cui aveva incitato i suoi sostenitori a prendere le cose nelle proprie mani. Questi si erano messi in marcia per cercare di rimediare al torto che era stato fatto al popolo. La ribellione era stata repressa e qualcuno era morto. Vite sacrificate. Patrioti che erano finiti in carcere, anche se ora li aveva perdonati. Lui stesso aveva subito una persecuzione da parte di tribunali politicizzati che lo avevano condannato. E di funzionari pubblici corrotti che avrebbero pagato per i torti commessi. Ora era lui a comandare. Il fronte estero era ancora turbolento. Occorreva competere con le altre Nazioni. Sorprenderle se necessario. E per farlo occorreva professarsi come un uomo di pace. Dopotutto lo aveva detto chiaramente: Il mio scopo è la pace, pace fondata sull’uguaglianza dei diritti tra i popoli.

Si sentiva predestinato a rendere la sua Nazione di nuovo grande. Si sentiva ancora più predestinato da quando era sfuggito a quell’attentato cui era scampato per puro caso. Dio lo aveva protetto in modo che potesse portare avanti il compito a cui era predestinato. Combattere, combattere, combattere. Non avrebbe mai cessato di farlo per il bene della sua Nazione. E se il bene della Nazione avesse significato mentire, l’avrebbe fatto senza esitazione. E se si deve mentire meglio spararla grossa perché le persone non riescono a concepire che si possa mentire su una scala così vasta. Certo talvolta non bastava mentire. Occorreva anche dire le cose nel modo più chiaro possibile. Anche ai leader degli altri Paesi. Come quel piccolo uomo, che guidava un Paese dell’Est Europa cui aveva dovuto urlare, nel modo più chiaro possibile, che doveva piantarla di causare problemi. Che se ne tornasse a casa, che tanto un accordo sul suo Paese, poteva essere trovato anche senza coinvolgerlo. Lo aveva umiliato. Non era stata una bella scena. Non una cosa su cui brindare, ma che gli importava. Tanto era astemio.

Era il 15 marzo 1939 e il Presidente della Cecoslovacchia Emil Hácha aveva dovuto cedere alla tracotanza di Hitler. Sì, la Cecoslovacchia. Ma, scusate, di chi pensavate che stessi parlando?

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