I russi si avvicinano alle città di questa regione, da Siversk a Pokrovsk. Ancora non sfondano, ma bombardano senza sosta. Mentre il piano per la pace di Zelensky per ora resta lettera morta

La vecchia strada che da Kramatorsk sale verso Nord-Est è deserta. I villaggi sono ridotti a un cumulo di macerie e l’aria è densa di fumo bianco e odore di bruciato. I soldati ucraini appiccano incendi nel sottobosco delle foreste di fitti pini per evitare che il nemico possa utilizzarle come nascondiglio. La paura dei sabotatori qui non è mai scemata, sembra di essere ancora alla primavera del 2022, se non fosse che non c’è quasi più nessuno. Troppo pericoloso, sia i civili sia i militari sanno che la cintura di villaggi che da Kramatorsk si sviluppa fino alle porte di Bakhmut è uno dei settori più a rischio del Donetsk. O meglio, di ciò che ne resta.

 

Se, da un lato, la fanteria russa è concentrata più a Sud, verso Pokrovsk, dall’altro, l’artiglieria non risparmia nessuna delle aree ancora in mano agli ucraini. È vero, come sostengono i generali di Volodymyr Zelensky, che l’offensiva della controparte è stata rallentata e infatti i soldati di Mosca non sono ancora entrati a Pokrovsk. Ma uno degli obiettivi principali di questa manovra, ovvero rendere impraticabile l’autostrada che dalla cittadina tagliava il Donetsk longitudinalmente, è già stato raggiunto. La logistica di Kiev ha subìto un duro colpo, che si sta ripercuotendo su tutto il fronte. Ora far arrivare armi e munizioni in prima linea è diventato molto meno agevole per gli ucraini. Non impossibile, ma le lunghe deviazioni per tenersi fuori dalla portata dei missili nemici e dal controllo dei droni fanno perdere tempo prezioso e obbligano i militari a turni ancora più estenuanti. Osservando una mappa aggiornata delle posizioni sul campo si vede chiaramente come intorno a Pokrovsk il cerchio si stia per chiudere, letteralmente. Da Nord a Sud della città i russi occupano una mezzaluna che mira a ricongiungere le sue due punte il prima possibile. La situazione è simile a Siversk, più a Nord, anche se in questo caso l’ampiezza della manovra è molto maggiore. Tuttavia, poche città in Ucraina hanno dovuto sopportare la mole di bombardamenti che ha subìto la piccola Siversk.

 

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, con il presidente Usa, Joe Biden, all’Assemblea generale dell’Onu il 25 settembre scorso

 

«Bombardano giorno e notte ormai, i militari neanche escono più dai rifugi», dice Anatoly, voce da baritono e faccia da fantasma. L’uomo, poco meno di 50 anni, vive in una cantina adibita a rifugio con la vecchia madre e qualche vicino. Inutile chiedere perché non se ne vada. «Avete batterie?», chiede; e, non contento della risposta, lo richiede altre tre volte. «Lì sotto non si vede niente», aggiunge poi laconico. «E del pane?», purtroppo stavolta non abbiamo niente con noi, ma ci ricordiamo che passando, nel cortiletto di una casa alla periferia della città, abbiamo visto una specie di alimentari improvvisato. Lasciamo qualche centinaio di grivnia ad Anatoly, che si sforza per non commuoversi e ci tiene a sottolineare: «Con questi compro il pane e altro cibo», come ad assicurarci che non li userà per la vodka. Rispondergli che qualsiasi cosa lui decida va bene non serve a niente. «No, solo pane e cose da mangiare», insiste. Alla fine è evidente che sta cercando di convincere sé stesso e non noi. Ma tre anni di guerra non si superano solo mangiando e la fortuna di molte di queste persone è che anche gli spacciatori sono scappati, perché altrimenti ci sarebbe un tasso di tossicodipendenza impressionante in questa regione.

 

Subito dopo pranzo, come da tradizione ormai, i russi ricominciano a bombardare. L’edificio della scuola viene centrato di nuovo e prende fuoco, l’artiglieria non si ferma e l’impressione è che i colpi si avvicinino sempre di più alla nostra macchina. Le anziane che vivevano nei pressi del centro, dove un trattore posizionato su un piedistallo di ferro ricordava le radici agricole della cittadina, non ci sono più. I loro palazzi, distrutti. A poca distanza, dei militari stanchi e scorbutici si infastidiscono subito per le nostre domande. Dai sotterranei esce un graduato con gli occhi grigi e ci chiede i documenti, prova a fare delle verifiche con il comando di settore, ma l’impressione è che dall’altra parte non risponda nessuno. In ogni caso ci trattengono per una lunga mezz’ora in cui i bombardamenti non cessano quasi mai. Un soldato più giovane ci racconta che «alcune signore, non so se sono le stesse di cui parlate voi, si sono fatte evacuare qualche giorno fa verso Poltava, poco prima che colpissero di nuovo il palazzo (indica un edificio davanti a noi con una voragine dal tetto ai piani centrali, ndr); sono state fortunate». Quando torna l’ufficiale e ci restituisce i passaporti, proviamo a chiedere il perché di tutto quell’accanimento contro Siversk, del resto i russi sono ancora a più di 20 chilometri, a che serve bombardarla così? Oltre alle solite accuse di barbarie e disumanità rivolte al nemico, l’ufficiale dice una cosa molto interessante: «Vogliono costringerci ad andarcene da qui per avere la strada libera fino a Lyman e tagliare a metà il nostro schieramento…ma hanno fatto male i conti». Un sibilo più forte degli altri ci fa scattare tutti, militari compresi. Il razzo esplode a poche centinaia di metri. «Ora andatevene», dice senza convenevoli l’ufficiale. E noi eseguiamo di buon grado.

 

Il fronte del Donetsk per gli ucraini sta diventando sempre più problematico. Non tanto per la recente avanzata russa su Pokrovsk, dato che l’esercito di Mosca ha dimostrato anche in questo caso di non essere in grado di sfruttare le debolezze del nemico fino in fondo e gli ha dato il tempo di riorganizzarsi. Ma perché si ha sempre più l’impressione che tutto si tenga su un equilibrio fragilissimo. Mentre dalla perdita di Mariupol, Bakhmut o Avdiivka – tutte battaglie campali del Donetsk – non erano mai emersi segnali di un crollo imminente, ora dal campo sembra che, se una delle posizioni di Kiev dovesse cedere, l’intero settore potrebbe collassare. Non è detto che i russi saranno in grado di approfittarne, ma occupare la parte restante del Donetsk permetterebbe a Vladimir Putin di poter finalmente annunciare al mondo la «liberazione del Donbass», sempre indicata dal Cremlino come uno dei pretesti principali dell’invasione.

 

Intanto i vertici politici ucraini fanno ciò che possono. Zelensky è volato a New York come ospite speciale dell’Assemblea generale dell’Onu per presentare il tanto annunciato «nuovo piano di pace». Per il capo di Stato la proposta avrebbe dovuto fornire al suo Paese «garanzie di sicurezza fondamentali», che gli avrebbero permesso di «trattare con la Russia in ogni formato». In altri termini, gli Usa si sarebbero dovuti impegnare a proteggere l’Ucraina con un intervento militare diretto, in caso di una nuova guerra. Ma la Casa Bianca non solo si è guardata bene dal fornire qualsiasi garanzia che non fosse la promessa di più soldi e armi, ma ha di nuovo negato l’autorizzazione a colpire in territorio russo con i missili occidentali. «Troppo elevato il rischio di una reazione russa, anche verso gli Stati occidentali e gli Usa stessi, e troppo scarsi i benefici per il conflitto in corso», hanno dichiarato i servizi segreti di Washington. Di nuovi F-16 per ora non si è parlato, così come dell’eventualità di un ingresso dell’Ucraina nella Nato, entrambi argomenti chiave del «piano per la vittoria» (Kiev lo ha definito così) di Zelensky. Joe Biden si è impegnato a fornire 8 miliardi di dollari di aiuti militari entro ottobre e l’Ue a stanziare almeno metà dei 50 miliardi che serviranno l’anno prossimo al sostentamento dello Stato ucraino, prelevando i fondi necessari dagli asset russi congelati a Bruxelles. Ma il tempo continua a giocare a sfavore dell’Ucraina e ora che l’inverno è alle porte le lancette inizieranno a correre più veloce.